Giuliano Polato
BREVI NOTE SU
LUIGI PIRANDELLO
Luigi Pirandello - note biografiche
Nacque a Girgenti, oggi Agrigento, nel podere di campagna detto il Caos (toponimo cui Pirandello dette in seguito un valore simbolico per sé, come individuo e per la sua opera) nel 1867, da una famiglia della borghesia commerciale di tradizione risorgimentale e garibaldina, tanto da parte del padre Stefano, quanto soprattutto della madre, Caterina Ricci – Gramitto. Preso soprattutto da interessi filologici e letterari, frequentò le università di Palermo, Roma e Bonn; in quest’ultima si laureò nel 1891 con una tesi in tedesco di fonetica e morfologia. Tornato in Italia nel 1892 e stabilitosi a Roma, grazie a Luigi Capuana strinse contatti con la cultura militante, collaborando con scritti critici e poesie alla “Nuova Antologia”, conducendo sul “Marzocco” un’accesa polemica antidannunziana e insistendo in molti interventi su vari periodici sul tema della crisi dei valori di fine secolo, messo a fuoco soprattutto nel saggio del ’93 Arte e coscienza d’oggi.
Dopo il matrimonio con Antonietta Portulano, che gli darà tre figli (Lietta, Stefano e Fausto: divenuti poi un famoso pittore quest’ultimo e scrittore l’altro, più noto con lo pseudonimo di Stefano Landi), una crisi delle aziende familiari di zolfo rovinò il patrimonio suo e della moglie (la quale ne ebbe la mente gravemente sconvolta). Pirandello si dedicò allora all’insegnamento e, dal 1897 al 1922, fu professore di stilistica prima, e di letteratura italiana poi, nell’Istituto superiore di magistero della capitale.
Venne pubblicando, soprattutto dal primo Novecento, poesie, saggi, romanzi e novelle (che a partire dal 1909 apparivano sul “Corriere della sera”) ma si affermò come autore drammatico (oltre che in Italia, anche in Germania, in Francia e nelle due Americhe) nel decennio successivo alla prima guerra mondiale. Già era stato molto fecondo il decennio 1910 – 20, dopo l’esordio con gli atti unici La morsa (prima intitolato L’epilogo) e Lumìe di Sicilia, che Pirandello aveva tratto da sue novelle su richiesta di Nino Martoglio, direttore del Teatro minimo; e particolarmente fitto di capolavori il biennio 1916 – 17, quando apparvero opere sia in lingua sia in dialetto (queste portate al successo da Angelo Musco), da Liolà a Pensaci Giacomino, a La giara, a Il berretto a sonagli, Il giuoco delle parti, Così è (se vi pare), il piacere dell’onestà.
Ma inizia col 1921 (l’anno delle clamorose rappresentazioni di Sei personaggi in cerca d’autore) il progressivo consenso del pubblico mondiale, e di gran parte della critica ufficiale, al suo teatro. Nel 1925 Pirandello inaugurò con uno spettacolo di massa, La sagra del Signore della nave, il Teatro d’arte di Roma, di cui fu direttore e regista, ed ebbe fino al 1934 una sua compagnia nella quale spiccò l’attrice Marta Abba; a lei Pirandello dedicò fra l’altro i drammi Vestire gli ignudi (1923) e L’amica delle mogli (1927). Accademico d’Italia dal 1929, gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura nel 1934.
La sua biografia registra infine una pubblica adesione al fascismo, che tuttavia non condizionò mai la sua opera di scrittore, inconciliabile con la letteratura celebrativa del regime, anzi perfino corrosiva della sua ideologia e del suo costume.
Morì a Roma nel 1936, mentre
stava lavorando al dramma I giganti della montagna.
Pirandello esordì con alcune raccolte di liriche (Mal giocondo, 1889; Pasqua di Gea, 1891; Elegie renane, 1895), cui seguì una traduzione delle Elegie romane di Goethe nel 1896. Ma già poco dopo il suo ritorno a Roma, anche per incoraggiamento di Capuana, si venne dedicando alla narrativa (con il romanzo L’esclusa, 1901, e le prime novelle), passando così dal classicismo intenzionalmente dissonante, ma pur sempre convenzionale, delle raccolte di versi a un naturalismo fortemente contrassegnato da istanze soggettivistiche e da un gusto derisorio e grottesco (per esempio nel romanzo breve Il turno, del 1895) che cancellano ogni residuo deterministico, dando risalto all’imprevedibilità dei fatti e del destino, d’ora in poi tema dominante di Pirandello narratore. Fin da queste opere poetiche e narrative affiorano alcuni motivi tipicamente pirandelliani, che impronteranno anche in seguito il suo discorso: la illusorietà degli ideali (nel quadro, fra l’altro, dell’involuzione della vicenda politica italiana), la solitudine dell’uomo, l’incoerenza e l’instabilità dei rapporti sociali e, di contro, gli inganni della coscienza e la necessità di una maschera, la disgregazione del mondo oggettivo, l’ironia lucidissima ma spesso alternata a pietà.
Nelle opere successive Pirandello approfondisce questi motivi e supera progressivamente i confini regionali e sociologici del suo mondo, benché il Pirandello siciliano contenga gli altri due strati, l’italiano e l’europeo, che Antonio Gramsci e poi Leonardo Sciascia in particolare hanno segnalato, valorizzando però l’insularità come nucleo generatore della dialettica e della creatività pirandelliana in tutte le sue espressioni.
Tappe fondamentali del processo
di interiorizzazione e penetrazione critica che caratterizza l’intera opera di
Pirandello sono il romanzo Il fu Mattia Pascal (1904), in cui si coglie
la nascita del “personaggio” pirandelliano sulle ceneri della “persona”, ovvero
di un’autentica identità esistenziale; l’altro romanzo I vecchi e i giovani
(1913), amara denuncia delle illusioni risorgimentali e delle speranze tradite
dallo stato unitario; e il saggio L’umorismo (1908), enunciazione
articolata, storicamente e teoricamente, dell’avvento di un’arte umoristica,
scomposta, antigerarchica, in quanto espressione di una “vita nuda”,
irriducibile all’ordine e fermentante nel “sentimento” (il “sentimento del
contrario” proprio dell’umorismo): unica realtà nella caduta delle tradizionali
certezze. Il patetico, il comico e il tragico quotidiano sono la materia di
questo periodo della produzione novellistica (che verrà raccolta organicamente,
nel
Nei successivi romanzi, Suo marito, del 1911 (racconto a chiave d’ambientazione letteraria) e Si gira, del 1915 (poi ribattezzato Quaderni di Serafino Gubbio operatore), diario di un uomo-macchina che si identifica con l’occhio cinematografico, si accentua la visione di un mondo dominato da condizioni sociali e psicologiche di inautenticità e dal continuo scambio tra realtà e finzione. Tale visione si rivela dialetticamente, e con una logica paradossale e acutamente demistificatorie, soprattutto nelle opere teatrali. Dopo il suo esordio in questo campo, con un repertorio prevalentemente siciliano, che oscilla dal plateismo di Lumìe di Sicilia al vitalismo gioioso de La giara e di Liolà alla beffa macabra de La patente, appaiono via via le opere più mature, pubblicate e rappresentate tra gli anni Dieci e gli anni Trenta: le grandi “parabole” drammatiche All’uscita e Così è (se vi pare), i drammi grotteschi e borghesi (Il berretto a sonagli, Il piacere dell’onestà, Il giuoco delle parti, Tutto per bene, Ma non è una cosa seria, La signora Morli, una e due, Come prima meglio di prima); le tragedie delle forme fisse, immutabili (Enrico IV, Vestire gli ignudi, La vita che ti diedi); la nuova dirompente poetica e tecnica teatrale di Sei personaggi in cerca d’autore, cui seguono le altre due opere costituenti la trilogia del “teatro nel teatro” che apre il corpus delle Maschere nude curato dallo stesso autore: Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto ( e in questa fase si colloca anche l’ultimo romanzo di Pirandello, Uno, nessuno e centomila, “bilancio ideologico” della tarda maturità). Infine Pirandello approda alla drammaturgia dell’angoscia esistenziale (Trovarsi, Come tu mi vuoi) e della catarsi nell’immaginario e nel simbolismo del “mito”: Lazzaro, La nuova colonia, fino all’incompiuto I giganti della montagna.
IL PERSONAGGIO
Nucleo essenziale del pensiero e del sentimento Pirandelliano è la svalutazione della realtà quotidiana e tangibile. Pirandello sente in modo drammatico, quasi doloroso il contrasto tra l’essere e l’apparire, la necessità di calzare la maschera, di recitare una parte, per porsi in relazione con gli altri (si pensi a Cartesio e alla sua Morale Provvisoria); a ciò si aggiunga la molteplicità delle interpretazioni del proprio io che nascono da come gli altri, ogni altro ci vede e che portano all’incertezza sul proprio essere reale o, come estremo limite, alla angosciosa domanda se esista un essere reale. Da ciò “discende anche la possibilità di costruirsi una realtà che nella labilità della cosiddetta realtà oggettiva possa legittimamente sostituirvisi; una realtà costruita sull’apparenza, o sull’opinione degli altri, o sulla propria volontà di essere in tal modo o in un altro… e anche l’irresolubile dubbio su cosa sia giusto o ingiusto, ragionevole o assurdo, saggio o pazzo, ed infine reale o fantastico”[1].
A meglio comprendere tutto questo e quanta parte abbia nella creazione artistica di Pirandello, soccorrono poche righe di Silvio D’Amico:
C’è in una commedia di Pirandello, un personaggio, un certo senatore, che vi fa una figura non bella. E si racconta che quando nel Senato del Regno entrò inaspettatamente un signore che portava lo stesso nome, Pirandello fu pregato amichevolmente, da persona autorevole, di chiamare in altro modo il suo personaggio, per evitare un noioso equivoco. Ma il poeta rispose:” E perché? Il mio personaggio è una creatura d’arte, esiste; il vostro signore nella vita conta zero, non ha una personalità, non esiste. Come volete che un personaggio esistente ceda il passo a uno inesistente? Se al vostro senatore dà fastidio quel nome, che se lo cambi lui!”[2].
Si comprende dunque bene, al di là della battuta aneddotica, come per il drammaturgo di Girgenti possa essere dubbia l’esistenza dell’uomo della strada ma non quella del personaggio. Ciò che crediamo vita è illusione, l’arte no, l’arte è realtà.
E tutto questo bene è chiarito
oltre che dai drammi che compongono
Si prenda a mo’ di esempio Sei personaggi in cerca di autore: in esso sei strani personaggi, piovuti da chissà dove, arrivano sul palcoscenico in cui una compagnia di attori sta provando una commedia proprio di Pirandello. Probabilmente i sei sono stati abbandonati dall’autore e ora cercano la complicità degli attori per superare la propria situazione “impossibile” di personaggi ormai vivi, cui però l’autore ha negato la rete di avvenimenti in cui inserirli. Ma il personaggio, sia pure esso rifiutato, abbandonato, ripudiato è sempre un personaggio ed è molto diverso dall’attore che in teatro lo interpreta.. Immaginare che il personaggio e l’attore siano identificabili è antica e vexata quaestio da Solone con Tespi a Diderot nel suo Paradosso sull’attore[3].
“Il personaggio appartiene
alla dimensione “eterna e immarcescibile” dell’arte, che l’attore trasferisce
nel relativo delle coordinate spazio-temporali della resa scenica.
Nell’immaginario contrasto che potrebbe sorgere tra ogni personaggio e l’attore
che di volta in volta lo interpreta e nel contrasto tra questi attori e quei
sei disgraziati personaggi, Pirandello, anche se è proprio lui ad averli
abbandonati, è sicuramente dalla parte di questi ultimi. Non sono certo di
carta i personaggi! E non sono entità astratte e ideali. Esistono e sono veri,
molto più degli uomini “che respirano”. Per l’autore sono come figli non di
carne ma di spirito, di energia psichica che si concentra, si sviluppa e cresce
senza che l’autore, una volta scattata la scintilla della loro vita nel suo
ricchissimo teatro interiore, li possa del tutto controllare, o inibire o
volontariamente riprodurre. Si può inibire la volontà di un uomo, contraddirlo,
ingannarlo, ucciderlo ma il personaggio, una specie di quello che Jung
definisce “complesso autonomo”, è indipendente dal suo stesso autore; e anche
se questi lo censura o tenta di sopprimerlo, quando meno se lo aspetta se lo
vedrà ricomparire davanti più vivo di prima; l’autore, infine, lo deve
accontentare, lo deve far vivere, magari come personaggio rifiutato. Eccoli,
allora, questi sei personaggi scaraventati su un palcoscenico a richiedere la
loro completezza artistica a quegli attori e a quel capocomico… I tentativi da
parte degli attori, pieni di “volubile naturalità” di ricostruire il dramma dei
personaggi, non potranno essere che fallimentari; tutto il dramma si svolge,
dunque, sull’impossibilità di costruire il dramma stesso. Ma proprio con questo
“dramma messo in questione” Pirandello dà inizio alla moderna drammaturgia”.[4]
E se il personaggio è più vero del suo interprete, se la vita del Palcoscenico è più reale di quella quotidiana, perché dunque non divenire personaggio, indossando il Berretto a sonagli, come fa Ciampa nell’omonima commedia ribellandosi alla condizione di “pupo”, o il costume e gli usi di Enrico IV ? In quest’opera, infatti, il protagonista, pur guarito dalla follia per la quale si credeva e si comportava come il grande imperatore, continua nella finzione: come Amleto, recita la commedia della sua pazzia. In fondo fingersi folle potrebbe essere una liberazione, una protezione dallo scorrere senza significato di un’esistenza che per nessuno riesce ad essere autentica e che inevitabilmente logora. Per dominare la vita bisogna allontanarsene, bisogna bloccarla, porsene al riparo, protetto dalla gabbia di una storia che non può cambiare: da qui Enrico IV diviene dominatore della vita, purchè, però, non la viva. Ma adattarsi alla maschera, alla finzione, può lasciare margini, fessure attraverso cui il sapore dell’esistenza, il desiderio di vivere, nonostante tutto, penetrano.
Non serve lo splendore degli abiti e della messinscena a porci al riparo dalla realtà: Enrico IV sceglie di essere personaggio, ma non lo è e dalla realtà della recita è pertanto sopraffatto.
Uno spiraglio sembra aprirsi con Trovarsi, scritta nel ’32 su misura per Marta Abba: l’arte non uccide l’esistenza; è solo una forma infinitamente più alta di vita. Rinunciare all’io, da parte dell’attore, non vuol dire rinunciare alla personalità, vuol anzi dire aprirsi alla sue potenzialità in una tensione creativa che si rinnova di volta in volta:”Vero è soltanto che bisogna crearsi, creare! E allora soltanto ci si trova.” Tra il personaggio e l’attore si instaura una perfetta circolarità: i personaggi rivivono in lui, ma in cambio fanno sorgere nel suo animo una molteplice varietà di emozioni, attualizzando quella ricca potenzialità che è in tutti prima della determinazione angusta e limitante in un unico io.
Con I giganti della Montagna, però solo il personaggio sembra tornare ad avere le stigmate della realtà, della verità.
I LINGUAGGI
Una caratteristica comune a molta della produzione teatrale dell’ultimo secolo è la non-appartenenza ai generi: siamo abituati a classificare un testo come “tragedia”, “commedia” o “melodramma”, ma ormai la contaminazione e la interazione sono tali che non è possibile (forse per fortuna!) catalogare un’opera. Di fronte all’abbattimento dei limiti consueti, poi, gli autori si sono spinti fino al tentativo di costruire spettacoli “totali”, che prevedessero cioè l’impiego di danza, musica, mimi, acrobazie (oltre, naturalmente, ad attori tradizionali), in una mistione di linguaggi alla quale il pubblico – dopo una iniziale diffidenza – ha cominciato ad abituarsi. E’ per tale motivo che, per molte delle opere del Novecento, il termine più appropriato è semplicemente “dramma”, cioè azione, senza alcuna altra connotazione di genere, anche se certa categorizzazione di stampo aristotelico è ancora difficile da superare.
A questo si deve aggiungere l’avvento sulla scena di una nuova figura, il regista.
La sua funzione è nitidamente creativa. Come interprete, nulla può aggiungere al testo, ma spetta a lui completare fino all’ultima conseguenza l’idea dell’autore: questa completezza, anzi, dipende solo da lui e ne fa un autore allo stesso titolo.
Regista e poeta non solo si completano ma, per così dire, si raffinano e depurano a vicenda.
La commedia erudita del Cinquecento si esprimeva in forme nobili e retoriche, gonfie di tale eloquenza da rimanerne in qualche modo soffocata; e nella contemporanea commedia cosiddetta popolare si ritrova l’ansia della ricerca di moduli espressivi lontani dall’Accademia e più vicini al quotidiano, ma gli esiti furono sempre linguaggi e lingue artificiosi: in ogni caso il trionfo della parola declamata.
Nell’Ottocento (compiendo un notevole salto temporale) le commedie italiane rilucevano per lo più di pallida opacità da una parte, e/o erano infarcite di barbarismi gallicani, risibili scimmiottature del teatro d’Oltralpe.
Una grande reazione, nella direzione della semplicità e della verosimiglianza (se non della verità), si era avuta con i rappresentanti più cospicui del teatro naturalista e verista; poco dopo, però, D’Annunzio sembrò riportare il teatro italiano alla magniloquenza retorica.
A questo punto compare Pirandello.
“Abbiamo sempre creduto, e continuiamo a credere, che la prima novità apportata da Pirandello alle scene italiane sia stata quella del suo stile. Pirandello era, né avrebbe potuto non essere, uno scrittore; era un letterato. Nutrito di sangue verghiano; ma, anzitutto, di cultura umanistica, italiana, latina, greca; e anche perciò capace di operare, nei suoi mezzi di espressione, quel singolare innesto di nuovo nell’antico, di vita schiumosa e torbida nelle linee d’un disegno dal nitore essenzialmente classico, che è appunto lo stile di Pirandello.”1
Il suo modo di esprimersi è per eccellenza parlato, convulso, singhiozzato, e, anche nella sua dialettica, così carnale che basterebbe da solo a confutare le accuse di cerebralità mossegli.
Con questo stile Pirandello, da trame esili, scarne, da ambienti quasi sempre piccolo borghesi, arriva dritto all’arte della grande Commedia e alla Tragedia. I suoi personaggi, marcati con segni quasi sempre aspri e violenti, così spesso stravolti, talora allucinati, passano di colpo dal loro ruolo di macchiette a quello di eroi tragici, assumono le dimensioni di giganti.
“La scrittura drammaturgica pirandelliana, correttamente va intesa come la continuazione della contestazione e della rottura del personaggio naturalistico e della vicenda passionale, già l’uno e l’altra dirottati e disposti dalla scrittura drammaturgica futurista, ma non tanto all’interno della scrittura drammaturgica, di per sé apparentemente sulla linea della tradizione naturalistica: e infatti personaggi e vicende dei drammi pirandelliani possono anche sembrare e proporsi verosimili e imitativi della vita e della realtà stando al linguaggio in cui si esprimono e con cui si svolgono; quanto nella scrittura scenica tout court, e cioè nella frantumazione accentuata e organizzata ( criticamente, a differenza di quanto era avvenuto nei futuristi che l’avevano costituita per divertimento e per impulso) dello spazio scenico, ove personaggi e vicenda si smarriscono per poi ritrovarsi, e cioè si deformano e si ristabiliscono, per successivi e alternantisi e sovrapponentisi punti di spazio rappresentativo.”2
Nel 1925 Pirandello assume la direzione del Teatro dell’Arte di Roma. L’esperienza diretta dell’allestimento dello spettacolo, delle luci, degli effetti sonori, della recitazione sarà per Pirandello di grandissima importanza e arricchirà notevolmente le sue prospettive, mettendole in contatto, e talora in contrasto, con l’avanguardia europea, in particolare con l’espressionismo tedesco. Si viene, intanto, modificando in questi anni l’idea dell’attore come inevitabile traditore del personaggio; si potenzia, invece, l’ipotesi della possibilità per l’attore di assimilarsi al personaggio. Pirandello regista ripete ai suoi attori :”bisogna sentire interiormente, bisogna immedesimarsi nel personaggio”, dimostrandosi vicino alle indicazioni del russo Stanislawskij, fondatore a Mosca del Teatro dell’Arte, secondo il quale l’attore, perdendo ogni residuo di istrionismo e improvvisazione, diventa rigoroso interprete.
Nello stesso 1925, con
In polemica con grandi registi e autori del tempo (Reinhardt, Piscator e Jessner), Pirandello compone il terzo dei “drammi da fare”, Questa sera si recita a soggetto. Il dottor Hinkfuss, il protagonista, è proprio uno di quei registi; ha preso come canovaccio una novella di Pirandello, Leonora, addio, sulla cui trama allestirà uno spettacolo a soggetto. Egli sa che l’opera e la messinscena sono due cose completamente diverse e si sente autorizzato dalla distanza incolmabile che separa lo spettacolo dall’opera d’arte a prescinderne quasi completamente o anche, il che è peggio, con il proposito di sottrarla alla sua “solitudine eterna e immutabile”, a servirsene come schematico strumento. Ma non soltanto l’opera , anche le luci, i suoni, le scena, la recitazione degli attori, si devono piegare alla sua creazione scenica:”Vi assicuro che le parole verranno da sé, spontanee, dagli atteggiamenti che assumerete secondo l’azione come io l’ho tracciata”. Ma la cosa non funziona! L’esperimento di Hinkfuss presenta molti lati negativi. Nelle confusione il primo attore gli dice:”Ci vuole l’autore”; e Hinkfuss risponde a denti stretti:”no, l’autore no, ma le parti scritte sì”. Come a dire che c’è bisogno dell’opera e del personaggio ben delineato. La conclusione è, come scrisse Pirandello nel 1930, che il teatro deve essere “reintegrato nei suoi tre elementi: poeta, regisseur e personaggio”. A patto che il regista sia non riscrittore ma fedele interprete dell’opera, autore dello spettacolo, completamento del poeta. Nell’aprile del 1929, infatti, su La fiera letteraria, vivacemente polemico con i registi più sopra citati, aveva scritto:”Le danze, le acrobazie, il circo equestre, i mutamenti di scena rapidi e con macchine potenti e perfette, hanno finito col diventare altrettanti mezzi di corruzione del teatro stesso.”
Come si è visto, dunque, in Pirandello non è tanto la lingua a dover subire interventi radicali quanto tutto il linguaggio scenico, fatto anche di gesti, di situazioni, di interpretazioni.
IL TEATRO NEL TEATRO
Tentativi, anche riusciti, di portare in scena il teatro, i suoi meccanismi, la sua funzione disvelatrice, liberatoria, catartica, nella storia del teatro occidentale si ripetono. Basti pensare allo Shakespeare di Amleto o a qualche Goldoni (Il teatro comico e, poco conosciuta, l’Arcadia in Brenta). Ma l’utilizzo di questo modulo espressivo era semplice espediente, artifizio funzionale al dipanarsi dell’azione principale del dramma, talora autoreferenziale.
Con Pirandello diviene esperienza autonoma e fondante, e non solo nella cosiddetta Trilogia del “teatro nel teatro” (Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto) ma anche in molta altra produzione (si pensi ad esempio a Il giuoco delle parti, I giganti della montagna, Il berretto a sonagli, Enrico IV).
La situazione generale, comune, della trilogia mostra il “dietro le quinte” di uno spettacolo, del suo allestimento: e questo disvelamento, questo alzarsi di sipario, questa eliminazione, addirittura, della “quarta parete”, permettono all’autore di esporre con una efficacia difficilmente riscontrabile altrove, il suo manifesto poetico, filosofico ed esistenziale.
Permettono di mostrare le persone, le Maschere, nude, di rivelare come la realtà, ritenuta effimera, del palcoscenico e, lato senso, della creazione artistica sia più vera della quotidianità, quali siano le difficoltà, le sofferenze, anche, per coglierla e l’impossibilità di impadronirsene. Si tratta di teatralità assoluta che è poi teatralità pura e semplice: riscoperta della natura originaria del teatro, della sua ragion d’essere prima, che è il legame tra l’Io e gli altri, e quindi della sua libertà.
Pirandello dà in spettacolo la situazione dell’attore.
In Sei personaggi in cerca
d’autore sono di scena attori che si apprestano a fare gli attori, ossia
che recitano la parte di attori. In libertà, sicchè, a rigore, non ci sarebbe
bisogno di battute scritte: basterebbe recitare a soggetto. Le battute sono
scritte perché bisogna che la scena sia tipica, e non è umano chiedere a degli
individui di improvvisarsi quello che assolutamente non sono. Ma quel che
questi attori hanno da dire, i gesti e le parole loro prescritti, sono così
quotidiani, così banali, così veri che gli attori di fatto recitano come se
improvvisassero, liberi: sono loro in persona, spogli dei prestigi
dell’illusione, attori e null’altro, individui. L’effetto è di sorpresa
assoluta: ecco il teatro, ecco gli attori, ecco la realtà nuda del teatro e
degli attori. Questa realtà è una parvenza magica, una apparizione voluta:
teatro. Ma in che cosa questa apparizione voluta è diversa da quelle che ci
offre la vita? In questo soltanto, che, essendo proiettata dinanzi a
noi, ci libera dal peso insopportabile del fatto, mette tra noi e il
fatto una distanza infinita, uno spazio di libertà nel quale possono sorgere e
svolgersi tutti i pensieri che la vita reale impedisce e svia. Il teatro non è illusione:
è realtà che che finalmente appare. Noi non siamo fatti della materia
dei sogni: sono i sogni a essere fatti della nostra stessa inafferrabile
materia.
Scriveva Nicola Chiaromonte a proposito de’ Sei personaggi in cerca d’autore (ma le sue parole ben si addicono a tutta l’esperienza del teatro nel teatro di Pirandello):
“Questa liberazione dalla stolidità delle certezze abituali è già spettacolare: un colpo di scena e di genio di cui quasi non ci avvediamo, tanto esso è semplice, e tanto c’incanta. E’ alla nascita del teatro come realtà che assistiamo. Ed ecco che comincia il dramma: quello dei “personaggi”. Dei personaggi, non della trama prestabilita: la trama non c’è e non ci può essere. C’è, anzi c’è stato, solo il fatto grezzo della cui espressione i personaggi sono i frammenti non ricomponibili… Ciò che accade agli uomini, quando lo si consideri accaduto veramente perché veramente sofferto, è irreparabile: non si aggiusta né si compone, è. Il teatro rappresenta questo fatto o non rappresenta nulla. E si può far teatro come si vuole, cominciando dove si voglia e finendo nel punto che si preferisca: l’essenziale è presentare questo fatto nel suo contesto reale, che è il conflitto fra creature vere a proposito di ciò che è loro accaduto. Il mirabile gioco pirandelliano fra personaggi e attori, personaggi-fantasmi e attori realtà, personaggi-creature vere e attori-convenzioni volgari, col continuo scambio e rinvio dal teatro alla vita e dalla vita al teatro che lo accompagna, vuol dire questo e nient’altro”.1
Il contrasto ma anche il continuo intrecciarsi tra la vita e la forma, tra le realtà e la finzione, tra persona e personaggio, rivivono nella ribellione esistenziale di Enrico IV. Il protagonista recita da vent’anni la parte di Enrico IV, nei primi dodici con inconsapevole innocenza, negli ultimi otto per dolorosa necessità. Egli non ha altro nome se non quello dell’Imperatore del Sacro Romano Impero di cui impersonava la parte al momento della sua caduta da cavallo durante una cavalcata in costume nella sua lontana giovinezza: l’incidente lo ha tenuto prigioniero in quel personaggio per dodici anni. Quando rinsavisce si rende conto che è stato defraudato della sua giovinezza; la donna che amava e gli altri amici l’hanno vissuta, lui no, né può più riviverla ora. Il tempo scorre inesorabile e non aspetta nessuno. Eroica è la decisione di continuare a recitare la sua pazzia essendo impossibile il recupero degli anni perduti con un rifiuto che rende impraticabile ogni compromesso con la frode operata dal tempo. La scelta di continuare quella storica farsa assume il significato di una rivalsa sul tempo che non potrà più nemmeno sfiorare la sua esistenza volontariamente posta al di fuori della vita degli altri. Enrico IV è il suo vero nome, sotto il quale è costantemente vissuto e continuerà a vivere, il nome del giovane caduto da cavallo non esiste, come non esiste il suo futuro. Il tempo non condizionerà nemmeno la sua figura di personaggio: Enrico IV non invecchia (quasi come il Dorian Gray di Wilde), rimane fermo all’immagine dell’Imperatore ventiseienne, come appare nel ritratto giovanile in costume. Ma a interrompere la sua statica esistenza, fissata nell’immobilità della storia, sopraggiungono i personaggi della sua giovinezza, venuti a curiosare e a tentare di farlo rinsavire. La reazione sarà violenta, Enrico non vuole tornare a quella che il mondo chiama realtà: la sua finzione è più vera della vita che negli altri ha continuato a scorrere, cambiandoli, corrompendoli. Quando uno dei visitatori lo afferra gridando “Tu non sei pazzo”, Enrico lo ferisce al ventre con la spada, estrema gelosa difesa del proprio mondo. E’ un’istintiva reazione che lo lascia “con gli occhi sbarrati, esterrefatto dalla vita della sua stessa finzione che in un momento lo ha forzato al delitto”. La scena si chiude con Enrico tra i suoi finti Consiglieri segreti che dice :”Ora sì… per forza… qua insieme, qua insieme… e per sempre!”.
Nel secondo dei “drammi da fare”, Ciascuno a suo modo, Pirandello porta a compimento la crisi della rappresentazione tradizionale. L’azione, come nei Sei personaggi, non si snoda più all’interno del palcoscenico, come su un unico piano orizzontale, ma si compie in un intersecarsi simultaneo di piani diversi. I piani che si intersecano, sullo sfondo della mutabilità continua delle opinioni, sono tre: il primo è quello della vita vissuta, rappresentato dalla storia vera che ha ispirato il dramma che si mette in scena; il secondo è quello della “finzione d’arte”, rappresentato dallo spettacolo che è stato tratto da questo avvenimento; il terzo, infine, è il piano degli spettatori. Questi tre piani non rimangono divisi l’uno dall’altro, ma si compenetrano a formare un insieme dinamico e conflittuale. I veri personaggi della storia, presenti allo spettacolo, si ribellano quando vedono gli attori che li interpretano scambiarsi un abbraccio sulla scena. Salgono sul palcoscenico per protestare, per dimostrare che nutrono l’uno nei riguardi dell’altro un odio disperato. Ma una volta saliti sul palcoscenico ripetono l’abbraccio del copione teatrale:”L’arte può anticipare la vita, predirla”. Il pubblico, a questo punto interviene in prima persona e uno spettatore intelligente commenta:”Si sono visti come in uno specchio e hanno fatto sotto i nostri occhi quello che l’arte aveva preveduto”. Lo spettacolo si arresta incompiuto. La mancanza di una conclusione ci lascia sospesi tra le varie problematiche emerse alla vana ricerca della coerenza unitaria delle originali trovate presenti nell’opera.
Bene si addicono a questo proposito le parole di Chiaromonte in occasione delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della morte di Pirandello:
“A noi sarebbe piaciuto che, nel tributare onore a Pirandello, qualcuno avesse preso a tema del suo discorso le parole con cui Adriano Tilgher chiudeva il suo celebre saggio:”Con Pirandello, per la prima volta la letteratura italiana scopre che lo spirito non è quella cosa semplice a due dimensioni che finora aveva creduto”. Lo spirito, ossia, insomma, l’animo umano”2.
Nella trilogia pirandelliana del “teatro nel teatro”, Questa sera si recita a soggetto è buona seconda, in ordine di importanza, dopo i Sei personaggi. Non si può dire che aggiunga qualcosa di essenziale a quello che rimane il capolavoro di Pirandello. Ma il tema del “teatro nel teatro” vi è confermato, chiarito e ribadito in maniera molto suggestiva; il canovaccio che sostiene la rappresentazione è teatralmente più convincente di Ciascuno a suo modo; l’idea di abolire il limite fra palcoscenico e platea, attori e spettatori, vi è realizzata più completamente che non nei Sei personaggi, con grande immediatezza e semplicità. Egualmente semplice è il modo in cui è condotto il contrappunto fra finzione drammatica e realtà del teatro, dramma vero e artificio scenico.
Si tratta di un’invenzione scenica composta di due motivi intrecciati e contrastanti: ci sono i tre brani appena sceneggiati della novella Sampognetta di Pirandello, e ci sono, inseparabili eppure distinti, gli urti, le dispute, le ribellioni provocate in una compagnia di attori all’impresa cui li ha chiamati il loro regista, di improvvisare (ma, assurdamente, rimanendo comandati da lui) una rappresentazione sulla falsariga della novella. La cacofonia creata dall’intrecciarsi e contrastare dei due motivi, dovrebbe, secondo le abitudini del teatro tradizionale, riuscire fatale, e invece risulta efficacissima, dovrebbe rompere l’unità dello spettacolo, e invece è elemento costitutivo essenziale di quella.
Il vero teatro, secondo Pirandello, non sta nella meccanica dell’intreccio, né in quello dello spettacolo, né nella combinazione di queste due. Il vero teatro è il dramma di cui i personaggi sono i portatori, la situazione morale e esistenziale in cui si trovano presi, in conflitti da cui sono lacerati e, insieme, accomunati. Il vero teatro è un “tribunale” di fronte al quale ciò che si giudica non sono le azioni finte di personaggi immaginari, ma la coscienza della società attuale, che lì è chiamata a rendersi conto di tutte le “realtà” in cui tanto crede e che tanto supinamente subisce quotidianamente, anzi della “realtà” in sé e per sé, che, messa lì a confronto con la finzione, appare tanto problematica.
“L’appello pirandelliano all’improvvisazione è un appello alla “contemporaneità” assoluta del teatro, oltre che alla sua libertà da ogni impaccio formale e da ogni volontà autoritaria. Dandosi apertamente come finzione, non pretendendosi altro che luogo di confronto e di giudizio, il teatro riacquista un potere di verità e di attualità che non aveva da secoli, guardingo com’era stato costretto a essere”3.
Note per “
Per l’allestimento del 2007
(L'altro figlio - La giara)
di Luigi Pirandello
Quali e quanti sono i fili che possono legare tra loro i due testi del grande Poeta Girgentano, L'altro figlio e La giara, che sono presentati in questo spettacolo?
Ognuno può cercare di dare la propria risposta a questa domanda.
E ogni risposta è legittima.
A noi sia permesso di proporne una, tra le diverse possibili.
Apparentemente, pur rappresentando entrambi, ad una prima sommaria e rapida lettura, che rischierebbe però di avere le stigmate della superficialità, bozzetti a forti tinte di vita siciliana, ancorati ad un qui e ad un'ora ben precisi, nulla li accomuna se non, appunto, quel qui e quell'ora.
A noi sembra, invece, che siano stazioni su una strada che conduce dal dolore profondo, senza fine, generato dalla condanna a solcare questa Terra che poche gioie regala e dalla privazione (di tutto: degli affetti più semplici e di quelli più grandi, dell'identità sociale e di quella culturale, dell'appartenenza ad una comunità e della linfa vitale della giovinezza, della forza delle braccia e di quella rigeneratrice della terra...), quale mostra L'altro figlio (atto unico del 1923 tratto dall'omonima novella del 1905), al tentativo di riscatto dal potere che deriva dalla sicumera del possesso, un potere che crede di tenere in pugno tanto le cose quanto le persone, ma che viene beffato con sapore luciferino da chi, invece, conosce e possiede il Fuoco del sapere e del saper fare, come sembra indicare La giara (altro atto unico del 1917 ricavato dalla omonima novella del 1909).
Il disincantato e beffardo conciabrocche Zì Dima de' La giara offre una possibilità di rivincita a tutti i perdenti, sia a quelli che ruotano attorno alla figura di Don Lolò, il committente e proprietario della gigantesca ma sfortunata giara per l'olio, che a quelli, rassegnati ma non ancora vinti, che sono protagonisti della storia del rifiuto di una maternità, partorita da una atroce violenza, che costituisce il nocciolo de' L'altro figlio: e la offre attraverso lo sberleffo che fa riandare alle medievali Feste dei Folli o alla Asinaria Festa, nelle quali i ruoli sociali, per un giorno, si invertono e il potente, o chi crede di esserlo, non può che chinar la testa davanti alla sagacia che fino ad allora aveva scambiato per stoltezza. E il "piccolo diavolo" può così riprendere la fattezze angeliche che solo la superbia gli aveva fatto perdere, lasciando il superbo a rodersi l'anima.
E si potrebbe continuare...
La trama
L'altro figlio
A Farnia, nella Sicilia dei primi
anni del Novecento, i giovani partono per le Americhe, in cerca di fortuna.
Restano in pochi, ancorati al paese di origine, a tentare di non far morire una
terra avara che inaridisce e diviene sterile, a vivere e ri-vivere vicende e
dolori antichi, come la "Rivoluzione", che fu all'origine del dramma
che vede da una parte un Figlio, rifiutato dalla propria madre, e dall'altra
Tra loro le "reliquie" umane del paese, che non possono far altro che farsi spettatori impotenti e rassegnati del rinnovarsi e perpetuarsi della tragedia.
La giara
Protagonista di questa conosciutissima opera pirandelliana è la civiltà contadina del profondo Sud, dipinta con freschezza di dialoghi e sapidi personaggi.
Una giara per l'olio, misteriosamente rotta, l'ira del suo proprietario, la trepidazione dei contadini e delle raccoglitrici d'olive, la calma strafottente del conciabrocche, la supponenza ironica dell'amico avvocato: tutto ciò a precedere il paradossale epilogo "giudiziario", risolto poi in modo del tutto spontaneo dal rissoso padrone della giara.
Note per “Il Berretto a Sonagli”
Per l’allestimento di Giuliano Polato
Marzo 2010
Or sono circa duemilacinquecento anni il grande filosofo greco Eraclito, quello del “panta rei” (del “tutto scorre”, per intenderci), scriveva, in uno dei frammenti che ci sono pervenuti, che “la guerra è madre di tutte le cose e di tutte le cose è regina”: ciò che si oppone “genera profonda armonia”, una “armonia per opposte tensioni, come nell’arco o nella lira”. Eraclito, cioè, diceva che i contrari sono l’uno complementare all’altro, strettamente legati l’uno all’altro dalla loro stessa opposizione: che sarebbe il caldo senza il freddo? Il forte senza il debole? L’essere senza il non essere? Nulla. Ma se consideriamo ogni contrario nella propria singolarità, non otterremo altro che una molteplicità sparpagliata che a nulla porta. Dobbiamo, invece, (ed è qui che interviene l’uomo che Eraclito definisce “saggio”) riuscire a cogliere nella loro opposizione l’elemento di unità, di armonia. Un corpo caldo, infatti, diviene freddo e può ritornare ad essere caldo con opportuni interventi; il forte può diventare debole in certe circostanze e ritornare forte in altre successive; l’essere continua a transitare dal non essere per tornare ad affermarsi come essere; ogni vivente muore ma dalla morte può nascere la vita (e qui gli accenni evangelici credo non manchino: dal chicco di grano al granello di senape, all’essenza stessa della fede cristiana che indica nella morte null’altro che un passaggio da una vita all’altra e nella morte e risurrezione di Cristo il transito necessario ad una nuova vita per l’umanità). E’ da questi continui passaggi che nasce il divenire, ciò che, ridotto a termini più essenziali e comprensibili, chiamiamo vita. E questo divenire non è mai fermo, è sempre cangiante, pur essendo sempre la stessa cosa, come il fuoco, elemento di riferimento del filosofo greco.
Ecco, da queste poche e, suppongo, confuse parole nasce la mia idea intorno alla fabula de’ “il Berretto a Sonagli” di Pirandello.
La vicenda è nota: istigata dalla Saracena, Beatrice, moglie tradita e delusa, cerca la sua vendetta contro il marito e la sua amante, a spese del coniuge di quest’ultima, lo scrivano impiegato del marito, Ciampa, nonostante i tentativi di dissuaderla da ciò del fratello Fifì e dell’amico delegato di P.S. Spanò e gli avvertimenti neppur tanto velati dello stesso Ciampa, Beatrice va sino in fondo, decisa a ottenere la sua personale vendetta, senza curarsi di ciò che questo rappresenta per la propria famiglia (la madre e il fratello) e per il povero scrivano. Ma… c’è un ma. Anzi, ce n’è più di uno. Non si vive soli a questo mondo: volenti o no siamo fibre di un ben preciso tessuto umano fatto di rapporti, relazioni, convenzioni, consuetudini. Ciò che crediamo far per noi stessi non può non aver riflesso su altri. La fisica, più tardi di Eraclito, dirà che ad ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria. E la vendetta di Beatrice si ritorcerà su di lei, non più vincitrice ma vittima: nient’altro che il divenire di cui prima si diceva.
Credo che una delle battute che meglio riassumano, a mio avviso, il senso di questo capolavoro sia quella di Spanò quando afferma, nella scena terza del secondo atto, “Perché la condizione nostra, qua, a tenere questo porco ufficio qua… nel nostro stesso paese nativo, è la cosa più infame che si possa immaginare”.
Ecco il conflitto. Anzi, uno dei conflitti da cui dovrebbe generarsi l’armonia ma che, non trovandosi saggezza in quasi nessuna delle persone del dramma, fallisce nel suo scopo. Forse solo la serva Fana riesce a vedere le cose con una quasi olimpica serenità, pur se partecipe e addolorata, e quindi a tentare di indicare la strada dell’armonia. Non riuscirà, però nel suo intento.
Diversi, dicevo, sono i conflitti, o meglio le loro tipologie. Vi è il conflitto sterile della Saracena, che cerca solo vendetta contro il mondo perbenista che la esclude e pertanto eccita l’animo di Beatrice; vi è la lotta di Fifì contro la pienezza del mondo di chi vorrebbe la verità contro la talora tranquillante realtà, i meccanismi della quale è male, perché faticoso, sconvolgere le regole ben oliate; vi è il conflitto di Beatrice contro l’altro da sé rappresentato dal marito che la tradisce, che ferisce il suo orgoglio e il suo onore, conflitto che vuole vedere l’altro sconfitto per il solo piacere della propria vittoria, indipendentemente dalle vittime che questa battaglia possa costare (quanti capi di stato e generali su ciò costruiscono le proprie fortune!); vi è il conflitto di Spanò, che si dibatte tra la fedeltà all’antica amicizia che lo lega alle famiglie di Beatrice e di suo marito e il dovere d’essere ligio alla propria funzione di rappresentante della Legge, dello Stato, dell’Ordine; vi è il conflitto della madre, che si batte perché, a dispetto di tutto, resti integro l’ordine delle cose che permette una vita, se si vuole superficiale, ma certo serena; vi è il conflitto di Ciampa con sé stesso, che si manifesta nei tentativi, prima, e nelle critiche e suggerimento finale, poi, affinché in altri si rifletta ciò che egli non è riuscito ad essere fino in fondo: non basta, infatti, essere un lucido analizzatore dei comportamenti umani individuali e sociali se si vuol essere pietra di cambiamento; certo, è necessario usare la propria “morale provvisoria” (per dirla con Cartesio), quella che ci costringe spesso ad usare le maschere, per riuscire, poi, a far trionfare l’idea di morale individuale, quella che ci consente di disvelare il nostro vero “io”; ma non è sufficiente. Bisogna avere il coraggio, o forse la saggezza, di fare sintesi su se stessi, e non solo sugli altri (in questo caso Beatrice), delle proprie analisi, essere protagonisti delle proprie conclusioni.
E così, a dispetto di Fana, lo scontro che avviene sul ring di questo dramma non può finire che con un verdetto di parità, o, al massimo, di vittoria, temporanea e illusoria, “ai punti”, per lo sfortunato scrivano.
Gli altri, i pupi, i manichini, non possono che stare a guardare la nostra sordità alle parole di Eraclito sull’armonia.
Giuliano Polato
APPUNTI PER IL PERSONAGGI DE’
“IL BERRETTO A SONAGLI”
Per l’allestimento di Giuliano Polato
Marzo 2010
Non più giovane. Non ha avuto
molto dalla vita, specie da quella sentimentale. Crede di essere riuscita ad
aver affermato la propria autonomia e indipendenza dando il “benservito” al
marito che, ella sostiene, continua a cercarla. Ma questa suo stato l’ha
portata ad essere esclusa e in qualche modo reietta dalla società dei
benpensanti, dei perbenisti, nella quale deve, sempre e comunque, continuare ad
essere intangibile l’ordine precostituito delle cose; un ordine fatto
soprattutto di forme ipocrite spesso vuoto di contenuto. Contro questo mondo
che la mette ai margini e che le fornisce l’unica compensazione della
delazione,
Fana
La vita, resa ricca dalle esperienze vissute in prima persona e da spettatrice, l’ha resa saggia, forse sapiente. Ha superato il conflitto, ha compreso che dal conflitto può essere generata l’armonia, quella cui tende con ostinazione, al di là di tutto e di tutti. Non è in lotta con nessuno, se non con la lotta stessa, ma non con quella che genera unità, ma con quella sterile che crede che da ogni battaglia si possa uscire vincitori o vinti. Ella ha compreso che gli esiti di questo tipo di guerre non prevedono altro se non vinti: anche coloro che credono di aver guadagnato la palma della vittoria, hanno primeggiato solo grazie al venir meno alla propria umanità che li fa sedere trionfanti sui cadaveri degli sconfitti. Sa anche che vincere significa accettare che la propria vittoria è profitto per qualcuno che è stato alla finestra a guardare aspettando di nutrirci della nostra stanchezza, delle nostre spoglie. Vorrebbe poter comporre tutti i conflitti, suggerire, consigliare di liberarsi del demone della gara. Ma non vi riesce. La sua posizione sociale subalterna lo impedisce. Non le sue preghiere sono rispettate, ma la sua canizie. Forse è l’unica unica persona positiva e ottimista, proprio in virtù della sua visione negativa della lotta sterile e del suo pessimismo sui suoi esiti.
Beatrice
Viene da quella che si può considerare una buona famiglia borghese benestante e probabilmente influente. Contrae matrimonio con un esponente del medesimo ceto, se non di rango, almeno economico, più alto. Ne diviene moglie. Lo ama? Non si capisce. Certo gli ha postato rispetto e forse affetto. Ma il matrimonio non ha dato i frutti che in genere la buona società si aspetta: figli, o meglio, eredi, continuatori di una attività. La figliolanza è altra cosa. Dispendiosa, emotivamente e fors’anche economicamente. Beatrice è moglie. E’ anche sposa? Non credo. Tutto fa pensare che in quell’unione sia stata la forma a essere oggetto di cura e salvaguardia. Ma quando questa forma viene a mancare che resta? Quando viene meno colui cui hai dato la tua giovinezza, privandoti della libertà, del tuo essere più vero e profondo, in nome della suprema divinità dell’agiatezza, del benessere, della tranquillità, del conformismo e delle convenzioni che ti vogliono moglie per obbedienza e convenienza, che fare? Quando crolla il mondo al quale ti sei sottomessa, perché, in fondo, costa troppa fatica essere se stessi ed è più comodo essere “come tu mi vuoi”, come ti vuole e ti vedono tutti coloro che di quel modo fan parte, che fare? Oh, vorresti finalmente essere sposa e non semplicemente moglie. Vorresti essere donna e non solo persona di sesso femminile, buona per la compagnia, per il letto, per la procreazione, per l’esibizione sociale. Vorresti poter affermare che tu sei e non semplicemente appari, che non sei semplice oggetto, soprammobile, straccio utile a togliere la polvere che per un po’ si è posata su una carne annoiata. Vorresti dire al mondo che tu vali non in quanto moglie “di…” ma in quanto Beatrice. Vorresti dire che “nomina sunt substantia rerum”, che nei nomi sta l’essenza delle cose, che nel tuo nome sta la potenzialità di rendere felice e, pertanto, di essere tu stessa felice. Ma non hai più voglia, più forze per combattere la battaglia che porterebbe ad affermare tutto ciò, che ti farebbe ritrovare la tua unicità nel dilaniamento causato dall’essere donna e moglie, che farebbe ritrovare la musica che nasce dalla giusta composizione di suoni, parole, affetti. E allora Beatrice si abbandona all’unica battaglia per cui ha ancora energia per affinare le armi: la vendetta. Sterile, inutile, amara. Ma portatrice di illusorio appagamento. Non sa che la vendetta non paga. Esige, invece, uno scotto. E lo capirà. Troppo tardi. Avrebbe dovuto dire il suo “beee, beee” ben prima, affermare la propria autenticità e unicità: ha preferito il torpore del quotidiano conformismo. Ma la vita, prima o poi, presenta il suo conto. Non hai capito che moglie e sposa non sono la stessa cosa. E quando sei sul punto di comprendere è troppo tardi: davanti hai solo il baratro del tuo io ferito in cui rintanarti per difenderti. Ma non puoi difenderti da te stessa.
Fifì
Diceva il Principe di Salina “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Fifì è ancora più radicale: non vale la pena cambiare alcunché, troppa fatica. Dobbiamo trascorrere questa esistenza. Cerchiamo di passarci in mezzo senza problemi, senza affanni, tentando, per quanto possibile di trarre il maggior vantaggio possibile da ogni situazione e dalla “fatica di vivere” altrui. “Vivi e lascia vivere” sembra il suo motto (anche se sarebbe più esatto usare “esistere” al posto di “vivere”), senza preoccuparti troppo del domani o degli altri, a meno che non ti procurino noie, sempre da evitare, a qualsiasi costo, anche a quello della dignità propria o altrui. Se una mosca ti dà noia, scacciala. Se puoi evita di ucciderla, ma se è necessario, beh meglio la sua morte che il mio fastidio. Le uniche energie veramente spendibili sono quelle che servono a mantenere lo “status quo”, a lottare perché tutto resti immutato per la nostra tranquillità, perché nulla venga a turbare il nostro sonno che ci consente di vivere in un sogno completamente avulso dalla verità. Ma è sogno o incubo? La verità esige fatica, ricerca. No, meglio lottare perché ciò che mi è vantaggioso resti integro. Gli altri? Non li vedo, non li sento. Meglio essere sordi e ciechi e attraversare questo mondo con la leggerezza pesante dell’apparire.
Spanò
Come al protagonista del Dialogo Facetissimo di Ruzante, un cuore dice una cosa, l’altro cuore ne dice un’altra. Ma Spanò, di cuori ne ha più di due: uno gli dice che deve mantenere la fedeltà alla famiglia di Beatrice cui deve anche la posizione di rappresentante della Legge e dell’Ordine che,però, gli impone un altro cuore che gli impone d’essere ligio alle proprie funzione; un altro cuore ancora gli suggerisce di non mettere nei guai l’altro suo benefattore, il cavalier Fiorica, persona peraltro cospicua nella società in cui si trova a vivere; l’altro cuore ancora gli propone la prudenza, quella che impedisce che si generi lo “scandalo” che turba la quiete quotidiana, la stessa quiete che gli permette di tirare avanti senza scosse, servo solo della propria ignavia. E’ dura fare il suo mestiere con tutti questi cuori; è lacerante: che lotte si combattono in quella povera carcassa d’uomo. Aveva ragione il Galileo: nessuno è profeta in casa propria. Ma Spanò non pretende di essere profeta. Gli basta mantenere l’rodine: oh, non importa se è quello voluto dalla Legge di cui dovrebbe essere servitore, basta che sia quello imposto dalle consuetudini e dalle convenienze. Non è attrezzato di armi sufficienti a questa guerra più grande di lui, il povero delegato. Forse una dignitosa ritirata sarebbe stata più opportune, più comoda, più conveniente. Ma le cose non vanno sempre come vorremmo. C’è sempre un mulo di calabrese di mezzo. E non cresta che continuare ad esser pupi.
Ciampa
Potrebbe essere professore, deputato, ministro, re e, perché no?, papa. E’ solo lo scrivano nell’ufficio di un ricco e riverito borghese. Talora anche piccolo giornalista per diletto e sfogo. Non è più giovane. Ma giovane è la moglie. Una tentazione per sé e per gli altri, la sua Nina. Perciò la tiene sotto chiave. Nessuno deve vederle, parlarle. E’ sua proprietà da custodire gelosamente, da preservare da quel mondo che egli conosce per averne analizzato accuratamente e puntigliosamente le caratteristiche. Strano è quel mondo. Non propriamente brutto, ma strano. Non vi è posto per l’unicità ma solo per il fare schizoide. E’ un mondo, però, in cui sembra prevalere l’ipocrisia, anche la propria, quella che gli impedisce, in nome della “morale provvisoria, contrapposta a quella sua personale, di lottare per il cambiamento. Gli piacerebbe che le cose mutassero, ma non ha la forza, le energie per intraprendere la strada della novità. Si chiama Ciampa (non è casuale l’assonanza con Ciampa, tirare a sopravvivere in opposizione alla vita vera) e non Abramo. Non ha il coraggio di lasciare le strade vecchie che l’hanno portato a una relativa serenità e tranquillità per intraprenderne di nuove, ignote, che non si sanno dove porteranno, ma certo faranno respirare l’aria della libertà, della verità, dell’autenticità. Serenità e tranquillità relative, si diceva, perché c’è un tarlo che le rode: la gelosia, che nasce dall’insicurezza di se stessi e dell’amore che altri possono portarci, dal bisogni di tutelarci in anticipo contro ogni possibile attacco, anche quello forse più improbabile. Ciampa ha analizzato lucidamente tutto ciò che lo circonda, ne ha conoscenza intellettuale piena. Ma anche a lui la vita vera presenta il conto. La novità lo disarma e spunta le armi della sua intelligenza. Allora deve lottare perché le proprie riflessioni sull’umano agire possano avere effetto senza privarlo di una illusoria e apparente dignità agli occhi del mondo. E lotta con tutte le sue forze, a sangue, fino a riversare sull’altro la propria impotenza, fino a fare dell’altro il protagonista di quella vita che nella sua mente aveva così ben progettato ma che la vita stessa ha reso completamente diversa dall’immagine che si era formato. E così la vita altrui diventa la propria. Gli basta questo? Chissà!
Nina
Un bel tacer non fu mai scritto.
Assunta
Quante ne ha viste, quante ne ha subite, quante ne ha dovuto mandar giù in vita sua. Tradimenti, umiliazioni, sofferenze. Ma ha saputo continuare nella sua opera di conservazione della specie. Oh, no, non quella umana, i propri figli, i propri cari. No. La conservazione della specie dei benpensanti, dei perbenisti, quelli per cui, come per suo figlio, tutto deve restare come prima, tutto deve conservare il suo aspetto. Non importa se si tratta di sepolcri imbiancati pieni di putridume. L’importante è che le pietre su quelle tombe siano pesanti e ben sigillate così che non ne sfugga l’olezzo. E ha combattuto per questo. E continua a combattere. Si può darle torto? Perché permettere che tutto quel che ha costruito con tanta abnegazione, soffocando se stessa e i propri probabili giovanili impeti, vada distrutto dalla follia di un momento? Meglio una follia, anche se non del tutto accertabile, più lunga, non duratura. Solo più lunga. Anche se a esserne vittima e protagonista è il frutto del proprio ventre. Che importa? Interessi ben superiori lo impongono. E hanno nomi consueti e cari: quiete, tranquillità soporifera, convenienza, consuetudine, forma. Il mondo che l’ha vista esistere deve continuare, non può finire così.
Giuliano Polato
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[1] L. Lunari BREVE STORIA DEL TEATRO, p. 200
[2] S. D’Amico STORIA DEL TEATRO DRAMMATICO, vol. II p. 340
[3] vedi L. Lunari BREVE STORIA DEL TEATRO, cap. III
[4] M. Argenziano IL TEATRO (di Pirandello) in L. Pirandello MASCHERE NUDE, p. 18
1 S. D’Amico STORIA DEL TEATRO DRAMMATICO, vol. II p. 338
2 G. Bartolucci TEATRO CORPO – TEATRO IMMAGINE in G. Poli CONTENUTI E TECNICHE DEL TEATRO CONTEMPORANEO, p. 150
1 N. Chiaromonte SCRITTI SUL TEATRO, pp. 124-125
2 N. Chiaromonte SCRITTI SUL TEATRO, p. 131
3 N. Chiaromonte SCRITTI SUL TEATRO, p. 137