martedì 11 maggio 2021

ITALIANO 3^ - Antologia: il cinema

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CINEMA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CINEMA

 

La cinematografia (universalmente nota nell'abbreviazione di cinema) è una forma d'arte moderna, nonché uno dei più grandi fenomeni culturali, nata alla fine del XIX secolo, nota anche come la settima arte.

La rapida successione di immagini che contengono una ripresa frazionata della medesima azione è alla base di quella illusione ottica che noi conosciamo con il nome convenzionale di cinema.

 

Movimento come illusione

Diffusa è la convinzione che il fenomeno della persistenza delle immagini sulla retina consenta allo spettatore di avere l'illusione del movimento. Questa affermazione è sbagliata. Il fenomeno descritto consente all'occhio di percepire come un fascio di luce continuo ciò che, al contrario, è una rapida sequenza di lampi (nel cinema professionale 48 al secondo, pari a 24 fotogrammi al secondo: ogni fotogramma viene illuminato due volte); l'illusione del movimento è invece opera del cervello il quale, secondo meccanismi non ancora del tutto chiariti, "assembla" la raffica di immagini che gli vengono trasmesse in modo unitario creando da sé medesimo l'illusione che tali immagini siano in movimento.

Secondo alcuni studi la percezione del movimento si ha già con sole sei immagini al secondo, anche se, ovviamente, la fluidità dell'azione risulta molto scarsa. I primi film muti venivano girati a circa sedici fotogrammi al secondo; lo standard dei 24 fotogrammi fu codificato solo con l'avvento del cinema sonoro onde ottenere una velocità lineare della pellicola sufficiente per una dignitosa resa sonora della traccia.

 

Storia della cinematografia

I primi rudimentali esempi di cinematografia erano semplici sviluppi della lanterna magica e di strumenti ottici simili, che potevano essere usati per proiettare immagini ferme ma in successione veloce, per fare in modo che l'occhio umano percepisse il movimento tramite la loro successione rapida. Naturalmente, le immagini usate per simili strumenti dovevano essere scelte e preparate con cura per raggiungere l'effetto desiderato. Usando immagini simili tra loro, ma con lievi differenze, si poteva trasmettere alla percezione del pubblico l'effetto del movimento. Il principio è ancora oggi quello applicato nel campo dell'animazione.

Con lo sviluppo della fotografia, e in particolare della pellicola cinematografica (film) di celluloide, divenne possibile registrare le immagini "in continuum". L'uso della pellicola, inoltre, era decisamente più comodo per un sistema di proiezione delle immagini ad un pubblico, quando all'epoca si usavano strumenti che potevano essere utilizzati da una persona per volta, che doveva guardare all'interno dell'oggetto.

Il 28 dicembre 1895 i fratelli Lumière proiettarono al Grand Café des Capucines di Parigi dieci film di circa un minuto l'uno, tra i quali un primo piano di uno dei fratelli e sua moglie che davano da mangiare a loro figlio e L'arroseur arrosé (L'innaffiatore innaffiato).

L'intento dei fratelli Lumière era quello di dare allo spettatore la sensazione del vero, e ci riuscirono pienamente. Infatti in uno dei loro primi “corti” ripresero un treno che rientrava in stazione e chiunque lo vedeva aveva paura che il treno lo travolgesse.

Il cinema fu inizialmente pura arte visiva. Comunque, quando un film veniva proiettato in un cinematografo, per lo più teatri adattati alle esigenze, i proprietari dei locali ingaggiavano dei musicisti per accompagnare la proiezione con la musica. I musicisti, solitamente pianisti, cercavano di adattare i pezzi suonati con quanto veniva mostrato sullo schermo.

Più tardi, lo sviluppo tecnologico permise di creare una colonna sonora sincronizzata con le immagini sullo schermo, e che poteva essere registrata a parte dalle riprese del film. I film sonori vennero inizialmente conosciuti come "film parlanti".

L'ultimo decisivo gradino che ha portato il cinema alla concezione moderna fu l'introduzione del colore, che venne adottato più gradualmente rispetto al sonoro. Con lo sviluppo della tecnologia, sempre più film si avvalsero del colore, ed è oggi ormai una pratica quasi universale, diversamente dalla fotografia, dove il bianco e nero è sopravvissuto per vari motivi. Ma ancora oggi in non pochi casi, il bianco e nero come forma d'arte viene raccolto: basti pensare a numerosi registi dell'era del colore come il Wim Wenders de "Il cielo sopra Berlino", Michelangelo Antonioni o Federico Fellini. Quando il cinema torna agli antichi splendori, il bianco nero torna a sottolineare che la lanterna magica è ancora in grado di incantare la realtà.

 

La produzione cinematografica

Se la proiezione di un film è una cosa tutto sommato semplice ed economica, la sua creazione invece è una vera e propria impresa che in generale richiede la coordinazione di una troupe di centinaia di persone, l'impiego di macchinari e attrezzature molto costose, la pianificazione di molte attività diverse, a volte contemporanee, e l'investimento di grosse somme di denaro: girare (creare) un film in modo professionale, anche in economia, costa comunque cifre dell'ordine del milione di euro. A fronte di questi costi e di queste difficoltà un film riuscito, che ha successo, può rendere cifre straordinarie. D'altra parte, se il film non piace, la perdita è molto grave. Bisogna dire che con l'avvento del digitale però l'abbattimento dei costi di realizzazione dei film è notevole, ed è possibile girare film con piccole troupe, a volte anche composte da sei o sette persone.

In generale, le fasi della produzione sono: lo sviluppo del progetto, la pre-produzione, la lavorazione e la post-produzione.

 

Gli aspetti più importanti

 

Regia

La regia cinematografica è quella fase di lavorazione attraverso la quale si passa dalla sceneggiatura al film vero e proprio, ossia "dalla carta allo schermo". Questa fase include particolarmente le scelte artistiche della narrazione, l'organizzazione e la durata delle inquadrature. All'inizio di questa fase viene realizzato lo storyboard che permette di visualizzare con una serie di disegni l'idea della regia del futuro film.

 

Soggetto e sceneggiatura

La produzione di un film parte generalmente da un'idea. Lo sviluppo di questa idea porta alla stesura del soggetto, una prima bozza di quello che potrebbe diventare il copione di un film. Il soggetto, contenente solo lo svolgimento della vicenda in linea di massima, è presentato a uno o più produttori. Se ci sono i presupposti per uno sviluppo del progetto, il soggetto viene tramutato in sceneggiatura. Questo secondo processo è decisamente più lungo e delicato del precedente, e richiede delle buone conoscenze tecniche: una buona sceneggiatura, infatti, getta le basi per una buona riuscita del prodotto finale. Lo svolgimento dell'azione narrato nel soggetto viene elaborato e raffinato, creando il copione finale del film.

 

Fotografia

La fotografia cinematografica ha un ruolo fondamentale nella produzione di un film, essendo la responsabile principale dell'aspetto estetico finale del prodotto. Il direttore della fotografia è uno dei collaboratori più stretti ed importanti del regista. Insieme decidono la composizione ed il taglio dell'inquadratura, a che distanza inquadrare un soggetto, con quale angolo di ripresa, ecc. In base alla scena che si vuole riprendere, si deciderà, ad esempio, se effettuare una carrellata, una panoramica, un primo piano, un campo lungo, ecc. La vicinanza o meno della macchina da presa può influire, infatti, sulla carica emotiva della scena. Ad esempio, inquadrando il volto di un attore o una scena di guerra ecc. In questo contesto, possiamo affermare che la fotografia è l'arte di "raccontare per immagini", ed è parte integrante di quello che è definito come "il linguaggio cinematografico.

 

Montaggio

Il montaggio è solitamente considerato l'anima del cinema e parte essenziale della messa in scena operata dal regista.

Il montatore segue le indicazioni del regista, che supervisiona il lavoro, e procede a visionare il girato tagliando le inquadrature utili ed unendole tra loro. Tutte le scene, girate secondo le esigenze della produzione, sono poi montate nell'ordine previsto dalla sceneggiatura, o in altro ordine che emerge secondo le necessità della narrazione. Non sono rari casi di film completamente rivoluzionati in fase di montaggio, rispetto a come erano stati concepiti e poi “girati”.

 

Colonna sonora

Con il termine colonna sonora ci si riferisce solitamente alle (musica/musiche) di un film, ma il termine comprende l'audio completo (con dialoghi e effetti sonori).

La colonna sonora di un film accompagna e sottolinea lo svolgimento della pellicola, e le musiche possono essere "originali" e non.

 

Effetti speciali

Gli effetti speciali sono una delle caratteristiche peculiari del cinema fin dai tempi del regista francese Georges Méliès, inventore dei primi rudimentali effetti visivi, ottenuti tramite un sapiente montaggio e lunghe sperimentazioni.

Gli effetti speciali sono realizzabili sia durante le riprese sia in post-produzione, e sono classificabili in "visivi" e "sonori", ed anche in "effetti fisici" ed "effetti digitali".

 

Tecnologie e figure professionali

La storia del cinema è costellata di piccole e grandi invenzioni tecniche. Il progresso tecnologico non si è mai arrestato, ed ha visto anche alcune svolte epocali, come il passaggio dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, e dall'analogico al digitale (quest'ultimo è tuttora in corso). Come conseguenza dello sviluppo tecnologico, è aumentato il grado di specializzazione delle maestranze impegnate sul set, e sono state create nuove figure professionali. Le grandi produzioni sono popolate da un vero e proprio esercito di assistenti, costruttori, attrezzisti, direttori di reparti, disegnatori, progettisti, truccatori, controfigure, ecc. Le attrezzature utilizzate sono sempre più complesse, e permettono evoluzioni della macchina da presa controllate al millimetro. Anche la proiezione si è evoluta, specialmente con l'introduzione dei grandi formati panoramici. Per non parlare del mondo degli effetti speciali, del montaggio, dei DVD, ecc.

 

giovedì 29 aprile 2021

ITALIANO 3^ - Letteratura. Giuseppe Tomasi di Lampedusa

 

GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA (Palermo 1896 - Roma 1957)

 

Di famiglia nobile, compose saggi e racconti che non diede però alle stampe. Enorme successo in Italia e all'estero ebbe un suo romanzo, Il gattopardo, pubblicato postumo (1958), che, ambientato in Sicilia all'epoca dello sbarco dei Mille e del trapasso di regime, si caratterizza per l'equilibrio tra l'invenzione e l'evocazione, tra il reale e il favoloso.

 

VITA E OPERE

Duca di Palma e Montechiaro, principe di Lampedusa, partecipò alla guerra del 1915-18 come ufficiale e rimase nell'esercito fino al 1925; si ritirò quindi a vita privata (anche perché avverso al fascismo), viaggiando e dimorando per lunghi periodi all'estero. Buon conoscitore di varie lingue e letterature moderne, oltre alle classiche, lasciò inedito, tra le altre opere, anche il Il gattopardo, concepito nel corso di un lungo periodo di tempo e scritto poco prima di morire, che, per il vasto successo riscosso costituì un singolare caso letterario (nel 1963 Luchino Visconti ne trasse il celebre film omonimo). La narrazione s'impernia sulla figura del principe Fabrizio Salina, un aristocratico illuminato, in cui Tomasi ha in parte evocato la figura del bisavolo paterno, ma soprattutto ha ritratto sé stesso, nella sua più segreta intimità. Di qui il denso contrappunto critico, psicologico e morale che sigla l'unità lirica del racconto, scandito in episodi staccati, in bilico tra la narrazione propriamente detta e il saggio. Nel 1961 è stato pubblicato un volume di Racconti, composto di tre racconti veri e propri (Il mattino di un mezzadroLa gioia e la leggeLighea) e di un lungo scritto autobiografico, I luoghi della mia prima infanzia. Postume sono anche apparse le raccolte di saggi Lezioni su Stendhal (1977), Invito alle lettere francesi del Cinquecento (1979) e Letteratura inglese: dalle origini al Settecento (1990).

 

Il Gattopardo

 

Il racconto inizia con la recita del rosario in una delle sontuose sale del palazzo Salina, dove il principe Fabrizio, il gattopardo, abita con la moglie Stella e i loro sette figli: è un signore distinto e affascinante, raffinato cultore di studi astronomici ma anche di pensieri più terreni e a carattere sensuale, nonché attento osservatore della progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto; infatti, con lo sbarco in Sicilia di Garibaldi e del suo esercito, va prendendo rapidamente piede un nuovo ceto, quello borghese, che il principe, dall'alto del proprio rango, guarda con malcelato disprezzo, in quanto prodotto deteriore dei nuovi tempi. L'intraprendente e amatissimo nipote Tancredi Falconeri non esita a cavalcare la nuova epoca in cerca del potere economico, combattendo tra le file dei garibaldini (e poi in quelle dell'esercito regolare del Re di Sardegna), cercando insieme di rassicurare il titubante zio sul fatto che il corso degli eventi si volgerà alla fine a vantaggio della loro classe; è poi legato da un sentimento, in realtà più intravisto che espresso compiutamente, per la bella e raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui.

Il principe trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è don Calogero Sedara, un parvenu, ma molto intelligente e ambizioso, che cerca subito di entrare nelle simpatie degli aristocratici Salina, mercé il fascino della figlia Angelica, cui il passionale Tancredi non tarderà a soccombere; quella Angelica che, pur non potendo uguagliare la grazia altera di Concetta, ha dalla propria parte la non comune bellezza, per non parlare dell'ingente fortuna economica (sia pur in gran parte derivante dai possedimenti perduti dai Salina e dai Falconeri), sì che Tancredi finirà per sposare lei.

Arriva il momento di votare l'annessione della Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, dubbiosi sul da farsi, gli chiedono un parere sul voto, il principe, suo malgrado, risponde in maniera affermativa; e, alla fine, il plebiscito per il sì, pur non esente da trucchi, sarà unanime. In seguito, giunge a palazzo Salina un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime, ad esso legato da vincoli di decenza. Il principe condurrà da ora in poi vita appartata fino al giorno in cui verrà serenamente a mancare, circondato dalle cure dei familiari, in una stanza d'albergo a Palermo dopo il viaggio di ritorno da Napoli, dove si era recato per cure mediche. L'ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel 1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti di don Fabrizio.

 

ITALIANO 3^ - Letteratura. Dino Buzzati

 

DINO BUZZATI

 

Dino Buzzati nasce a San Pellegrino, nei pressi di Belluno, il 16 ottobre 1906. Figlio di Giulio Cesare Buzzati, giurista e docente universitario, e di Alba Mantovani, sorella di Dino Mantovani, scrittore molto conosciuto e apprezzato alla fine dell'Ottocento, Dino Buzzati appartiene insomma ad un ambiente borghese e benestante. La famiglia risiede stabilmente a Milano, dove il padre insegnava all'Università Bocconi, oltre che a quella di Pavia, ma trascorre tutte le vacanze estive nella villa di San Pellegrino: i due mondi (la città milanese e la montagna bellunese) ritorneranno frequentemente nella sua narrativa. Infatti, è nella villa di San Pellegrino che Buzzati scopre e sviluppa il proprio universo interiore e la sua capacità immaginifica, alimentata dal rapporto con la natura, e dai tomi della fornitissima biblioteca di famiglia. Inoltre durante le lunghe estati montanare, lo scrittore crea un legame inscindibile con le montagne, che lo accompagnerà tutta la vita. Il piccolo Buzzati è un ragazzino dotato di una sensibilità spiccatissima, che esprime nell'amore per la musica e per le arti figurative. Dopo aver frequentato il liceo milanese Parini, viene indirizzato dalla volontà familiare verso la facoltà di Giurisprudenza, che conclude nel 1928 con una tesi sulla natura giuridica del Concordato. La sua vera vocazione è però di carattere letterario e così, sempre nel 1928, ancora studente universitario, inizia a lavorare da praticante al "Corriere della Sera", prima come cronista, poi come redattore e inviato, e con cui collaborerà per il resto della vita, alternando la scrittura giornalistica a quella romanzesca.

 Nel 1933 vede la stampa il suo primo romanzoBàrnabo delle montagne, su cui Buzzati lavora sin dal 1930 e che vien seguito nel 1935 da Il segreto del bosco vecchio. Entrambi diverranno successivamente dei film, per opera di Mario Brenta il primo e di Ermanno Olmi il secondo. Questo è anche il periodo in cui, anche per la collaborazione con il periodico "La Lettura", Buzzati inizia a scrivere racconti brevi, che contribuiranno alla sua fama di narratore (tra gli altri, Sette piani, 1937; I sette messaggeri, 1939;Eppure battono alla porta, 1940) per la loro commistione di elementi realistici ed elementi fantastici e per un forte senso di mistero inquietante.

Nel 1939 Buzzati parte per l'Etiopia come inviato del "Corriere"; da questa esperienza - che segna profondamente Buzzati - nasce il romanzo che lo porta al vero successo e lo trasforma in un autore di fama internazionale: Il deserto dei Tartari, il cui titolo originale era La fortezza, viene pubblicato dall'editore Rizzoli nel 1940.

Mentre continua la collaborazione al "Corriere", Buzzati rimane abbastanza defilato rispetto agli eventi bellici e della Liberazione; nel 1945 pubblica (prima sul "Corriere dei Piccoli" poi in edizione completa in volume) invece La famosa invasione degli orsi in Sicilia, una favola per bambini arricchita di tavole e disegni per mano dello stesso autore. Mentre Il deserto dei tartari conosce molte ripubblicazioni e numerose traduzioni all'estero, Buzzati prosegue sulla linea della narrazione breve, tra fantastico e surreale: i racconti sono ora raccolti in Paura alla Scala, pubblicato nel 1949. Nello stesso anno, Buzzati è l'inviato del "Corriere" al Giro d'Italia, e l'anno successivo è vicedirettore della "Domenica del Corriere", al cui "taglio" di successo Dino contribuisce in maniera determinante. Nel corso degli anni Cinquanta, interessante è pure l'avvicinamento al mondo del teatro, per cui Buzzati scrive alcuni testi.

 Nel 1958 vince l'importante Premio Strega con la raccolta Sessanta racconti, che raccolgono il meglio della sua produzione. Nel 1960, con Il grande ritratto, Buzzati si accosta alla tematica della femminilità (e dell'amore) per la prima volta, inaugurando quello che diventerà uno dei temi principali della sua poetica successiva, che culminerà nel 1963 con la pubblicazione di Un amore, nuovo romanzo di natura autobiografica. Se nel 1960 sono stati pubblicati per Mondadori i testi de Il colombre e altri cinquanta racconti, nel 1965 Buzzati sperimenta l'attività di poeta con Il capitano Pic e altre poesie, che affiancherà a quella di pittore, altra grande passione di Buzzati, che partecipa anche ad alcune mostre ed esposizioni. Nel 1971, ormai stanco e malato, racchiude parte della sua produzione (racconti ed elzeviri) nella raccolta Notti difficili, per poi spegnersi il 28 gennaio del 1972.

 

 

 

Il deserto dei tartari

 

Con la pubblicazione del romanzo intitolato Il deserto dei Tartari nel 1940, Dino Buzzati ottiene quel successo di critica e di pubblico che ne hanno fatto uno dei principali scrittori del Novecento italiano. L'ispirazione per le vicende del libro arriva a Buzzati dall'esperienza giornalistica per conto del "Corriere della Sera" in Etiopia nel 1939, e dallo scoppio del conflitto mondiale, cui l'Italia decide di partecipare (10 giugno 1940) proprio in concomitanza con la pubblicazione del romanzo.

 Il protagonista delle pagine del Deserto dei Tartari è allora Giovanni Drogo, un tenente mandato in servizio presso un non meglio identificato distaccamento militare ai confini del mondo, la "Fortezza Bastiani", relegata in cima ad un'impervia montagna. Questo scenario - che in parte ricorda quello del Bàrnabo delle montagne, e che costituisce una delle costanti dell'autore - ci appare da subito come sospeso tra il sogno e la veglia; la Bastiani è un avamposto ormai abbandonato e pressoché dimenticato, ma che vincola a sé tutti i militari del battaglione non solo attraverso una ferrea disciplina ma per il senso di perenne attesa di un nemico che giungerà dalla frontiera e che rappresenta il sogno di una gloria da conquistare e di un destino su cui riporre la propria fiducia. Quando Drogo giunge alla Fortezza, è un giovane tenente fiero e saldo, che dispone di se stesso e della sua esistenza in piena libertà, convinto di trascorrere in quel luogo desolato solo qualche mese, per poi tornare alla vita normale. Dopo poco però, la pacata e monotona vita della Fortezza Bastiani, scandita dalla disciplina militare, dagli orari dell'esistenza comunitaria e dalla convinzione che di lì a poco il nemico arriverà, fa presa anche sul nostro protagonista che, senza rendersene conto, trascorre in quel luogo remoto tutti gli anni della sua esistenza. Per Drogo, così come per i commilitoni, la speranza di veder comparire un nemico all'orizzonte si trasforma a poco a poco in un'ossessione metafisica, in cui al desiderio di mostrare il proprio eroismo si sovrappone - con forte simbolismo - la ricerca di una verità definitiva sulla propria esistenza.

Mentre trascorrono i decenni (e mentre i compagni alla Fortezza tornano alla vita civile o muoiono, come il tenente Angustina), Drogo rimane fatalmente incatenato a questa condizione irrisolta tra speranza e disillusione; quando, per una breve licenza, potrà rientrare nel mondo reale, percepirà tutto il senso del proprio sradicamento rispetto alla gente comune. L’attesa del nemico, unico moto vitale per Drogo e i per suoi compagni di sventura, si rivela infine un fallimento: quando finalmente i Tartari, a lungo attesi, avanzano verso la Fortezza, Drogo è costretto in un letto, condannato da un male incurabile. Proprio nell'occasione sperata da una vita, Drogo, frustrato e sconfitto, viene congedato dalla Bastiani, e trascorre la sua ultima notte in un'anonima locanda, sulla via del ritorno. Il momento della morte diventa quindi quello della rivelazione per il protagonista: dopo un'esistenza spesa e sfumata nell'attesa di un evento che dia un senso alla propria vita, Drogo sceglie di affrontare con serena dignità una morte solitaria ed ignota a tutti.

 

giovedì 22 aprile 2021

EDCUCAZIONE CIVICA 3^ - Per la Giornata della Terra

 

Lettera del capo indiano Seattle al presidente Usa Franklin Pierce

 

Nel 1854 il "Grande Bianco" di Washington (il presidente degli Stati Uniti) si offrì di acquistare una parte del territorio indiano e promise di istituirvi una "riserva" per il popolo indiano. Ecco la risposta del "capo Seattle", considerata ancora oggi la più bella, la più profonda dichiarazione mai fatta sull'ambiente.

 

 

Il Grande Capo a Washington ci ha mandato a dire che vuole comprare la nostra terra. Il Grande Capo ci manda anche parole di amicizia e buone intenzioni.

Questo è gentile da parte sua, dato che sappiamo che lui non ha bisogno della nostra amicizia. Ma noi considereremo la vostra offerta, poiché sappiamo che se non vendiamo, l’uomo bianco può tornare coi fucili a prendersi la nostra terra.

Come potete comprare o vendere il cielo, il calore della terra? L’idea ci è estranea. Se noi non possediamo la freschezza dell’aria o il luccichio dell’acqua, come potete voi comprarli? Ogni parte di questa terra è sacra per la mia gente.

Ogni splendente ago di pino, ogni spiaggia sabbiosa, la bruma delle scure foreste, ogni radura e ogni insetto ronzante sono sacri nella memoria e nelle esperienze della mia gente. La linfa che scorre negli alberi trasporta i ricordi dell’uomo rosso.

I morti dell’uomo bianco dimenticano il paese della loro nascita quando vanno a camminare tra le stelle. I nostri morti non dimenticano mai questa bella terra, poiché essa è la madre dell’uomo rosso. Noi siamo parte della terra ed essa è parte di noi. I fiori profumati sono le nostre sorelle; il daino, il cavallo, la grande aquila, questi sono i nostri fratelli.

Le creste rocciose, le essenze delle praterie, l’impeto del puledro e l’uomo, tutto appartiene alla stessa famiglia. Così, quando il Grande Capo a Washington ci manda a dire che vuole comprare la nostra terra ci chiede molto. Il Grande Capo ci fa sapere che ci riserverà un luogo dove vivere comodamente. Egli sarà nostro padre e noi saremo i suoi figli.

Quindi considereremo la vostra offerta di comprare la nostra terra. Ma non sarà facile. Questa terra è sacra per noi. L’acqua scintillante che scorre nei ruscelli e nei fiumi non è solo acqua, ma il sangue dei nostri antenati. Se noi venderemo la nostra terra, voi dovete ricordare che essa è sacra e dovete insegnare ai vostri bambini che essa è sacra e che ogni riflesso spettrale nell’acqua chiara dei laghi ci narra gli eventi e i ricordi della vita della mia gente.

I fiumi sono nostri fratelli, essi placano la nostra sete. I fiumi trasportano le nostre canoe e nutrono i nostri figli. Se vi vendiamo la nostra terra, voi dovete ricordare ed insegnare ai vostri figli che i fiumi sono nostri fratelli, e vostri, e dovete, d’ora in poi, trattare i fiumi con la gentilezza con la quale trattereste un fratello. L’uomo rosso si è sempre ritirato davanti l’avanzata dell’uomo bianco come la foschia delle montagne si dilegua dinnanzi al sole del mattino. Ma le ceneri dei nostri padri sono sacre.

Le loro tombe sono luoghi sacri e così anche queste colline, questi alberi; questa parte di terra è consacrata per noi. Noi sappiamo che l’uomo bianco non capisce il nostro modo di vivere. Per lui, una parte di terra è uguale all’altra, dato che è uno straniero che giunge di notte e prende dalla terra qualsiasi cosa gli serve.

La terra non è sua sorella, ma sua nemica, e quando l’ha conquistata, se ne va. Si lascia alle spalle le tombe dei suoi padri e non se ne cura. Strappa la terra ai suoi figli e non se ne cura. Egli dimentica le tombe dei suoi padri ed i diritti di nascita dei suoi figli. Tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, come oggetti da comprare, da saccheggiare, da vendere come pecore o collane lucenti. Il suo appetito divorerà la terra e si lascerà alle spalle solo il deserto. Non so. I nostri modi sono diversi dai vostri. La vista delle vostre città rattrista l’uomo rosso.

Ma forse è perché l’uomo rosso è selvaggio e non capisce. Non ci sono luoghi quieti nelle città dell’uomo bianco. Nessun luogo in cui udire il fruscio delle foglie in primavera o il battito delle ali di un insetto. Ma forse non capisco perché sono un selvaggio. Il frastuono sembra solo ferire l’orecchio. E cosa resta nella vita se l’uomo non può ascoltare il richiamo solitario del lupo o le discussioni delle rane intorno ad uno stagno di notte? Io sono un uomo rosso e non capisco.

Gli Indiani preferiscono il delicato rumore del vento che increspa la superficie di uno stagno e il profumo del vento stesso, purificato dalla pioggia di mezzogiorno o aromatizzato dal L’aria è preziosa per l’uomo rosso, dato che tutte le cose dividono lo stesso respiro: la bestia, l’albero, l’uomo, tutti condividono lo stesso respiro. L’uomo bianco non sembra notare l’aria che respira. Come l’uomo morente, egli è insensibile al fetore.

Ma se noi vi vendiamo la nostra terra, voi dovete ricordare che l’aria ci è preziosa, dovete ricordare che l’aria condivide il suo respiro con tutta la vita che sostiene. Il vento che donò a nostro nonno il suo primo respiro, riceve anche il suo ultimo sospiro. E il vento deve dare anche ai nostri figli lo spirito della vita Se vi vendiamo la nostra terra, voi dovete tenerla separata e considerarla sacra, come un luogo dove persino l’uomo bianco può andare a gustare il vento addolcito dalla fragranza dei fiori delle praterie.

Così, noi considereremo la vostra offerta di comprare la nostra terra. Se decideremo di accettare, porrò una condizione: l’uomo bianco dovrà trattare gli animali di questa terra come fratelli. Io sono selvaggio e non capisco altri modi di vivere. Ho visto migliaia di bisonti imputridire nella prateria, uccisi dall’uomo bianco che ha sparato loro da un treno in corsa.

Io sono un selvaggio e non capisco come il cavallo d’acciaio che sputa fumo possa essere più importante del bisonte che noi uccidiamo solo per sopravvivere. cos’è l’uomo senza le bestie? Se tutti gli animali fossero scomparsi, l’uomo morirebbe per la grande solitudine di spirito. Infatti, qualsiasi cosa succeda agli animali, presto accade anche all’uomo.

Tutte le cose sono legate tra loro. Dovete insegnare ai vostri figli che la terra sotto i vostri piedi è la cenere dei nostri nonni. Affinchè rispettino la terra, dite ai vostri bambini che essa è arricchita dalle vite dei nostri antenati. Insegnate ai vostri bambini quello che noi abbiamo insegnato ai nostri figli: che la terra è nostra madre.

Qualsiasi cosa accada alla terra, accade anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su loro stessi. Noi sappiamo questo: la terra non appartiene all’uomo, l’uomo appartiene alla terra. Noi sappiamo questo: tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Tutte le cose sono unite tra loro. Qualsiasi cosa accada alla terra, accade ai figli della terra. L’uomo non ha tessuto la stoffa della vita, è solo un filo di essa.

Qualsiasi cosa lui faccia alla stoffa, lo fa a se stesso. Ma noi considereremo la vostra offerta di andare nella riserva che avete offerto alla mia gente. Vivremo appartati ed in pace. Importa poco dove trascorreremo il resto dei nostri giorni. I nostri bambini hanno visto i loro padri umiliati nella disfatta. I nostri guerrieri hanno provato vergogna e dopo la sconfitta hanno trascorso i loro giorni nella pigrizia e contaminato i loro corpi con cibi dolci e bevande forti. Importa poco dove trascorreremo il resto dei nostri giorni.

Non sono molti. Ancora poche ore, pochi inverni e nessuno dei nostri figli delle grandi tribù, che una volta vivevano su questa terra o che si aggirano ora in piccole bande nei boschi, rimarranno a lamentarsi sulle tombe di un popolo una volta potente e pieno di speranza come il vostro. Perché dovrei piangere la scomparsa della mia gente? Le tribù sono fatte di uomini, niente di più.

Gli uomini vanno e vengono come le onde del mare. Persino l’uomo bianco, il cui Dio cammina con lui e gli parla da amico ad amico, non può essere esonerato dal destino comune. Noi possiamo essere fratelli, dopotutto; staremo a vedere. Una cosa sappiamo, che l’uomo bianco potrà forse scoprire un giorno: il nostro Dio è lo stesso Dio. Ora voi potete pensare che Egli vi appartenga, così come volete possedere la nostra terra, ma non è così. Egli è il Dio dell’uomo e la Sua compassione è uguale sia per l’uomo rosso che per quello bianco.

Questa terra è preziosa per Lui e danneggiarla significa disprezzare il suo Creatore. Anche i bianchi scompariranno, forse anche prima di tutte le altre tribù. Ma nel vostro perire risplenderete vividamente, infiammati dalla forza del Dio che vi ha portato in questa terra e che per qualche scopo speciale vi ha dato il dominio su di essa e sull’uomo rosso.

Quel destino è un mistero per noi, poiché non comprendiamo perché i bisonti sono stati tutti macellati, i cavalli selvaggi domati, i sacri angoli della foresta appesantiti dall’odore di molti uomini e la vista delle rigogliose colline disturbata dai fili parlanti. Dov’è la macchia? Sparita. Dov’è l’aquila? Sparita. E che cosa significa dire addio al puledro e al cacciatore? E’ la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza. Comunque considereremo la vostra offerta di comprare la nostra terra. Se accetteremo sarà per assicurarci la riserva che ci avete promesso. Là, forse, potremo vivere i nostri brevi giorni come vorremmo.

Quando l’ultimo uomo rosso sarà svanito da questa terra e la sua memoria sarà soltanto l’ombra di una nuvola che passa sulla prateria, queste spiagge e queste foreste ospiteranno ancora gli spiriti della mia gente. Perché essi amano questa terra come il neonato ama il battito del cuore di sua madre.

Così, se vi venderemo la nostra terra, amatela come noi l’abbiamo amata. Abbiatene cura come ne abbiamo avuto cura noi. Tenete nella vostra mente il suo ricordo di com’era quando l’avete presa. E con tutta la vostra forza, con tutta la vostra mente, con tutto il vostro cuore, preservatela per i vostri figli ed amatela … come Dio ama tutti noi.

Una cosa noi sappiamo. Il nostro Dio è lo stesso Dio. Questa terra è preziosa per Lui. Persino l’uomo bianco non può essere esonerato dal destino comune. Possiamo essere fratelli, dopotutto.

 

mercoledì 24 marzo 2021

ITALIANO 3^ - Letteratura. Salvatore Quasimodo

 

Salvatore Quasimodo

 

MILANO, AGOSTO 1943

 

Invano cerchi tra la polvere,

povera mano, la città è morta.

È morta: s’è udito l’ultimo rombo

sul cuore del Naviglio. E l’usignolo

è caduto dall’antenna, alta sul convento,

dove cantava prima del tramonto.

Non scavate pozzi nei cortili:

i vivi non hanno più sete.

Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:

lasciateli nella terra delle loro case:

la città è morta, è morta.

 

 

Alle fronde dei salici 

 

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

 

 

 

Salmo 136

1 Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
2 Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
3 Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
«Cantateci i canti di Sion!».
4 Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
5 Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
6 mi si attacchi la lingua al palato,
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.
7 Ricordati, Signore, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme,
dicevano: «Distruggete, distruggete
anche le sue fondamenta».
8 Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto.
9 Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra.



lunedì 15 marzo 2021

ITALIANO 3^ - Letteratura: Giuseppe Ungaretti, alcune poesie

 

Giuseppe Ungaretti

 

Sono una creatura 

(Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916)

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
cos' totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

 

 

Fratelli

(Mariano il 15 luglio 1916)

 

Di che reggimento siete

fratelli?

 

Parola tremante

nella notte

 

Foglia appena nata

 

Nell'aria spasimante

involontaria rivolta

dell'uomo presente alla sua

fragilità

 

Fratelli

 

 

 

San Martino del Carso

(Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916)

 

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

 

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

 

Ma nel cuore

nessuna croce manca

 

E' il mio cuore

il paese più straziato

 

 

 

Soldati

(Bosco di Courton luglio 1918)

 

Si sta come

d'autunno

sugli alberi

le foglie.

 

 

 

martedì 23 febbraio 2021

ITALIANO 3^ - Letteratura: Brevi note su Luigi Pirandello

 

Giuliano Polato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BREVI NOTE SU

LUIGI PIRANDELLO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Luigi Pirandello  - note biografiche

 

Nacque a Girgenti, oggi Agrigento, nel podere di campagna detto il Caos (toponimo cui Pirandello dette in seguito un valore simbolico per sé, come individuo e per la sua opera) nel 1867, da una famiglia della borghesia commerciale di tradizione risorgimentale e garibaldina, tanto da parte del padre Stefano, quanto soprattutto della madre, Caterina Ricci – Gramitto. Preso soprattutto da interessi filologici e letterari, frequentò le università di Palermo, Roma e Bonn; in quest’ultima si laureò nel 1891 con una tesi in tedesco di fonetica e morfologia. Tornato in Italia nel 1892 e stabilitosi a Roma, grazie a Luigi Capuana strinse contatti con la cultura militante, collaborando con scritti critici e poesie alla “Nuova Antologia”, conducendo sul “Marzocco” un’accesa polemica antidannunziana e insistendo in molti interventi su vari periodici sul tema della crisi dei valori di fine secolo, messo a fuoco soprattutto nel saggio del ’93 Arte e coscienza d’oggi.

Dopo il matrimonio con Antonietta Portulano, che gli darà tre figli (Lietta, Stefano e Fausto: divenuti poi un famoso pittore quest’ultimo e scrittore l’altro, più noto con lo pseudonimo di Stefano Landi), una crisi delle aziende familiari di zolfo rovinò il patrimonio suo e della moglie (la quale ne ebbe la mente gravemente sconvolta). Pirandello si dedicò allora all’insegnamento e, dal 1897 al 1922, fu professore di stilistica prima, e di letteratura italiana poi, nell’Istituto superiore di magistero della capitale.

Venne pubblicando, soprattutto dal primo Novecento, poesie, saggi, romanzi e novelle (che a partire dal 1909 apparivano sul “Corriere della sera”) ma si affermò come autore drammatico (oltre che in Italia, anche in Germania, in Francia e nelle due Americhe) nel decennio successivo alla prima guerra mondiale. Già era stato molto fecondo il decennio 1910 – 20, dopo l’esordio con gli atti unici La morsa (prima intitolato L’epilogo) e Lumìe di Sicilia, che Pirandello aveva tratto da sue novelle su richiesta di Nino Martoglio, direttore del Teatro minimo; e particolarmente fitto di capolavori il biennio 1916 – 17, quando apparvero opere sia in lingua sia in dialetto (queste portate al successo da Angelo Musco), da Liolà a Pensaci Giacomino, a La giara, a Il berretto a sonagli, Il giuoco delle parti, Così è (se vi pare), il piacere dell’onestà.

Ma inizia col 1921 (l’anno delle clamorose rappresentazioni di Sei personaggi in cerca d’autore) il progressivo consenso del pubblico mondiale, e di gran parte della critica ufficiale, al suo teatro. Nel 1925 Pirandello inaugurò con uno spettacolo di massa, La sagra del Signore della nave, il Teatro d’arte di Roma, di cui fu direttore e regista, ed ebbe fino al 1934 una sua compagnia nella quale spiccò l’attrice Marta Abba; a lei Pirandello dedicò fra l’altro i drammi Vestire gli ignudi (1923) e L’amica delle mogli (1927). Accademico d’Italia dal 1929, gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura nel 1934.

La sua biografia registra infine una pubblica adesione al fascismo, che tuttavia non condizionò mai la sua opera di scrittore, inconciliabile con la letteratura celebrativa del regime, anzi perfino corrosiva della sua ideologia e del suo costume.

Morì a Roma nel 1936, mentre stava lavorando al dramma I giganti della montagna.

 

Pirandello esordì con alcune raccolte di liriche (Mal giocondo, 1889; Pasqua di Gea, 1891; Elegie renane, 1895), cui seguì una traduzione delle Elegie romane di Goethe nel 1896. Ma già poco dopo il suo ritorno a Roma, anche per incoraggiamento di Capuana, si venne dedicando alla narrativa (con il romanzo L’esclusa, 1901, e le prime novelle), passando così dal classicismo intenzionalmente dissonante, ma pur sempre convenzionale, delle raccolte di versi a un naturalismo fortemente contrassegnato da istanze soggettivistiche e da un gusto derisorio e grottesco (per esempio nel romanzo breve Il turno, del 1895) che cancellano ogni residuo deterministico, dando risalto all’imprevedibilità dei fatti e del destino, d’ora in poi tema dominante di Pirandello narratore. Fin da queste opere poetiche e narrative affiorano alcuni motivi tipicamente pirandelliani, che impronteranno anche in seguito il suo discorso: la illusorietà degli ideali (nel quadro, fra l’altro, dell’involuzione della vicenda politica italiana), la solitudine dell’uomo, l’incoerenza e l’instabilità dei rapporti sociali e, di contro, gli inganni della coscienza e la necessità di una maschera, la disgregazione del mondo oggettivo, l’ironia lucidissima ma spesso alternata a pietà.

Nelle opere successive Pirandello approfondisce questi motivi e supera progressivamente i confini regionali e sociologici del suo mondo, benché il Pirandello siciliano contenga gli altri due strati, l’italiano e l’europeo, che Antonio Gramsci e poi Leonardo Sciascia in particolare hanno segnalato, valorizzando però l’insularità come nucleo generatore della dialettica e della creatività pirandelliana in tutte le sue espressioni.

Tappe fondamentali del processo di interiorizzazione e penetrazione critica che caratterizza l’intera opera di Pirandello sono il romanzo Il fu Mattia Pascal (1904), in cui si coglie la nascita del “personaggio” pirandelliano sulle ceneri della “persona”, ovvero di un’autentica identità esistenziale; l’altro romanzo I vecchi e i giovani (1913), amara denuncia delle illusioni risorgimentali e delle speranze tradite dallo stato unitario; e il saggio L’umorismo (1908), enunciazione articolata, storicamente e teoricamente, dell’avvento di un’arte umoristica, scomposta, antigerarchica, in quanto espressione di una “vita nuda”, irriducibile all’ordine e fermentante nel “sentimento” (il “sentimento del contrario” proprio dell’umorismo): unica realtà nella caduta delle tradizionali certezze. Il patetico, il comico e il tragico quotidiano sono la materia di questo periodo della produzione novellistica (che verrà raccolta organicamente, nel 1922, in Novelle per un anno).

Nei successivi romanzi, Suo marito, del 1911 (racconto a chiave d’ambientazione letteraria) e Si gira, del 1915 (poi ribattezzato Quaderni di Serafino Gubbio operatore), diario di un uomo-macchina che si identifica con l’occhio cinematografico, si accentua la visione di un mondo dominato da condizioni sociali e psicologiche di inautenticità e dal continuo scambio tra realtà e finzione. Tale visione si rivela dialetticamente, e con una logica paradossale e acutamente demistificatorie, soprattutto nelle opere teatrali. Dopo il suo esordio in questo campo, con un repertorio prevalentemente siciliano, che oscilla dal plateismo di Lumìe di Sicilia al vitalismo gioioso de La giara e di Liolà alla beffa macabra de La patente, appaiono via via le opere più mature, pubblicate e rappresentate tra gli anni Dieci e gli anni Trenta: le grandi “parabole” drammatiche All’uscita e Così è (se vi pare), i drammi grotteschi e borghesi (Il berretto a sonagli, Il piacere dell’onestà, Il giuoco delle parti, Tutto per bene, Ma non è una cosa seria, La signora Morli, una e due, Come prima meglio di prima); le tragedie delle forme fisse, immutabili (Enrico IV, Vestire gli ignudi, La vita che ti diedi); la nuova dirompente poetica e tecnica teatrale di Sei personaggi in cerca d’autore, cui seguono le altre due opere costituenti la trilogia del “teatro nel teatro” che apre il corpus delle Maschere nude curato dallo stesso autore: Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto ( e in questa fase si colloca anche l’ultimo romanzo di Pirandello, Uno, nessuno e centomila, “bilancio ideologico” della tarda maturità). Infine Pirandello approda alla drammaturgia dell’angoscia esistenziale (Trovarsi, Come tu mi vuoi) e della catarsi nell’immaginario e nel simbolismo del “mito”: Lazzaro, La nuova colonia, fino all’incompiuto I giganti della montagna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PERSONAGGIO

 

Nucleo essenziale del pensiero e del sentimento Pirandelliano è la svalutazione della realtà quotidiana e tangibile. Pirandello sente in modo drammatico, quasi doloroso il contrasto tra l’essere e l’apparire, la necessità di calzare la maschera, di recitare una parte, per porsi in relazione con gli altri (si pensi a Cartesio e alla sua Morale Provvisoria); a ciò si aggiunga la molteplicità delle interpretazioni del proprio io che nascono da come gli altri, ogni altro ci vede e che portano all’incertezza sul proprio essere reale o, come estremo limite, alla angosciosa domanda se esista un essere reale. Da ciò “discende anche la possibilità di costruirsi una realtà che nella labilità della cosiddetta realtà oggettiva possa legittimamente sostituirvisi; una realtà costruita sull’apparenza, o sull’opinione degli altri, o sulla propria volontà di essere in tal modo o in un altro… e anche l’irresolubile dubbio su cosa sia giusto o ingiusto, ragionevole o assurdo, saggio o pazzo, ed infine reale o fantastico[1].

A meglio comprendere tutto questo e quanta parte abbia nella creazione artistica di Pirandello, soccorrono poche righe di Silvio D’Amico:

C’è in una commedia di Pirandello, un personaggio, un certo senatore, che vi fa una figura non bella. E si racconta che quando nel Senato del Regno entrò inaspettatamente un signore che portava lo stesso nome, Pirandello fu pregato amichevolmente, da persona autorevole, di chiamare in altro modo il suo personaggio, per evitare un noioso equivoco. Ma il poeta rispose:” E perché? Il mio personaggio è una creatura d’arte, esiste; il vostro signore nella vita conta zero, non ha una personalità, non esiste. Come volete che un personaggio esistente ceda il passo a uno inesistente? Se al vostro senatore dà fastidio quel nome, che se lo cambi lui!”[2].

Si comprende dunque bene, al di là della battuta aneddotica, come per il drammaturgo di Girgenti possa essere dubbia l’esistenza dell’uomo della strada ma non quella del personaggio. Ciò che crediamo vita è illusione, l’arte no, l’arte è realtà.

E tutto questo bene è chiarito oltre che dai drammi che compongono la Trilogia del Teatro nel Teatro (Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo, Questa sera si recita a soggetto) anche in testi di analogo spessore quali Enrico IV, La favola del figlio cambiato, I giganti della Montagna, La sagra del Signore della nave, Così è (se vi pare), ecc.

Si prenda a mo’ di esempio Sei personaggi in cerca di autore: in esso sei strani personaggi, piovuti da chissà dove, arrivano sul palcoscenico in cui una compagnia di attori sta provando una commedia proprio di Pirandello. Probabilmente i sei sono stati abbandonati dall’autore e ora cercano la complicità degli attori per superare la propria situazione “impossibile” di personaggi ormai vivi, cui però l’autore ha negato la rete di avvenimenti in cui inserirli. Ma il personaggio, sia pure esso rifiutato, abbandonato, ripudiato è sempre un personaggio ed è molto diverso dall’attore che in teatro lo interpreta.. Immaginare che il personaggio e l’attore siano identificabili  è antica e vexata quaestio da Solone con Tespi a Diderot nel suo Paradosso sull’attore[3].

“Il personaggio appartiene alla dimensione “eterna e immarcescibile” dell’arte, che l’attore trasferisce nel relativo delle coordinate spazio-temporali della resa scenica. Nell’immaginario contrasto che potrebbe sorgere tra ogni personaggio e l’attore che di volta in volta lo interpreta e nel contrasto tra questi attori e quei sei disgraziati personaggi, Pirandello, anche se è proprio lui ad averli abbandonati, è sicuramente dalla parte di questi ultimi. Non sono certo di carta i personaggi! E non sono entità astratte e ideali. Esistono e sono veri, molto più degli uomini “che respirano”. Per l’autore sono come figli non di carne ma di spirito, di energia psichica che si concentra, si sviluppa e cresce senza che l’autore, una volta scattata la scintilla della loro vita nel suo ricchissimo teatro interiore, li possa del tutto controllare, o inibire o volontariamente riprodurre. Si può inibire la volontà di un uomo, contraddirlo, ingannarlo, ucciderlo ma il personaggio, una specie di quello che Jung definisce “complesso autonomo”, è indipendente dal suo stesso autore; e anche se questi lo censura o tenta di sopprimerlo, quando meno se lo aspetta se lo vedrà ricomparire davanti più vivo di prima; l’autore, infine, lo deve accontentare, lo deve far vivere, magari come personaggio rifiutato. Eccoli, allora, questi sei personaggi scaraventati su un palcoscenico a richiedere la loro completezza artistica a quegli attori e a quel capocomico… I tentativi da parte degli attori, pieni di “volubile naturalità” di ricostruire il dramma dei personaggi, non potranno essere che fallimentari; tutto il dramma si svolge, dunque, sull’impossibilità di costruire il dramma stesso. Ma proprio con questo “dramma messo in questione” Pirandello dà inizio alla moderna drammaturgia”.[4]

E se il personaggio è più vero del suo interprete, se la vita del Palcoscenico è più reale di quella quotidiana, perché dunque non divenire personaggio, indossando il Berretto a sonagli, come fa Ciampa nell’omonima commedia ribellandosi alla condizione di “pupo”, o il costume e gli usi di Enrico IV ? In quest’opera, infatti, il protagonista, pur guarito dalla follia per la quale si credeva e si comportava come il grande imperatore, continua nella finzione: come Amleto, recita la commedia della sua pazzia. In fondo fingersi folle potrebbe essere una liberazione, una protezione dallo scorrere senza significato di un’esistenza che per nessuno riesce ad essere autentica e che inevitabilmente logora. Per dominare la vita bisogna allontanarsene, bisogna bloccarla, porsene al riparo, protetto dalla gabbia di una storia che non può cambiare: da qui Enrico IV diviene dominatore della vita, purchè, però, non la viva. Ma adattarsi alla maschera, alla finzione, può lasciare margini, fessure attraverso cui il sapore dell’esistenza, il desiderio di vivere, nonostante tutto, penetrano.

Non serve lo splendore degli abiti e della messinscena a porci al riparo dalla realtà: Enrico IV sceglie di essere personaggio, ma non lo è e dalla realtà della recita è pertanto sopraffatto.

Uno spiraglio sembra aprirsi con Trovarsi, scritta nel ’32 su misura per Marta Abba: l’arte non uccide l’esistenza; è solo una forma infinitamente più alta di vita. Rinunciare all’io, da parte dell’attore, non vuol dire rinunciare alla personalità, vuol anzi dire aprirsi alla sue potenzialità in una tensione creativa che si rinnova di volta in volta:”Vero è soltanto che bisogna crearsi, creare! E allora soltanto ci si trova.” Tra il personaggio e l’attore si instaura una perfetta circolarità: i personaggi rivivono in lui, ma in cambio fanno sorgere nel suo animo una molteplice varietà di emozioni, attualizzando quella ricca potenzialità che è in tutti prima della determinazione angusta e limitante in un unico io.

Con  I giganti della Montagna, però solo il personaggio sembra tornare ad avere le stigmate della realtà, della verità.

 

 

I LINGUAGGI

 

Una caratteristica comune a molta della produzione teatrale dell’ultimo secolo è la non-appartenenza ai generi: siamo abituati a classificare un testo come “tragedia”, “commedia” o “melodramma”, ma ormai la contaminazione e la interazione sono tali che non è possibile (forse per fortuna!) catalogare un’opera. Di fronte all’abbattimento dei limiti consueti, poi, gli autori si sono spinti fino al tentativo di costruire spettacoli “totali”, che prevedessero cioè l’impiego di danza, musica, mimi, acrobazie (oltre, naturalmente, ad attori tradizionali), in una mistione di linguaggi alla quale il pubblico – dopo una iniziale diffidenza – ha cominciato ad abituarsi. E’ per tale motivo che, per molte delle opere del Novecento, il termine più appropriato è semplicemente “dramma”, cioè azione, senza alcuna altra connotazione di genere, anche se certa categorizzazione di stampo aristotelico è ancora difficile da superare.

A questo si deve aggiungere l’avvento sulla scena di una nuova figura, il regista.

La sua funzione è nitidamente creativa. Come interprete, nulla può aggiungere al testo, ma spetta a lui completare fino all’ultima conseguenza l’idea dell’autore: questa completezza, anzi, dipende solo da lui e ne fa un autore allo stesso titolo.

Regista e poeta non solo si completano ma, per così dire, si raffinano e depurano a vicenda.

 

La commedia erudita del Cinquecento si esprimeva in forme nobili e retoriche, gonfie di tale eloquenza da rimanerne in qualche modo soffocata; e nella contemporanea commedia cosiddetta popolare si ritrova l’ansia della ricerca di moduli espressivi lontani dall’Accademia e più vicini al quotidiano, ma gli esiti furono sempre linguaggi e lingue artificiosi: in ogni caso il trionfo della parola declamata.

Nell’Ottocento (compiendo un notevole salto temporale) le commedie italiane rilucevano per lo più di pallida opacità da una parte, e/o erano infarcite di barbarismi gallicani, risibili scimmiottature del teatro d’Oltralpe.

Una grande reazione, nella direzione della semplicità e della verosimiglianza (se non della verità), si era avuta con i rappresentanti più cospicui del teatro naturalista e verista; poco dopo, però, D’Annunzio sembrò riportare il teatro italiano alla magniloquenza retorica.

A questo punto compare Pirandello.

Abbiamo sempre creduto, e continuiamo a credere, che la prima novità apportata da Pirandello alle scene italiane sia stata quella del suo stile. Pirandello era, né avrebbe potuto non essere, uno scrittore; era un letterato. Nutrito di sangue verghiano; ma, anzitutto, di cultura umanistica, italiana, latina, greca; e anche perciò capace di operare, nei suoi mezzi di espressione, quel singolare innesto di nuovo nell’antico, di vita schiumosa e torbida nelle linee d’un disegno dal nitore essenzialmente classico, che è appunto lo stile di Pirandello.1

Il suo modo di esprimersi è per eccellenza parlato, convulso, singhiozzato, e, anche nella sua dialettica, così carnale che basterebbe da solo a confutare le accuse di cerebralità mossegli.

Con questo stile Pirandello, da trame esili, scarne, da ambienti quasi sempre piccolo borghesi, arriva dritto all’arte della grande Commedia e alla Tragedia. I suoi personaggi, marcati con segni quasi sempre aspri e violenti, così spesso stravolti, talora allucinati, passano di colpo dal loro ruolo di macchiette a quello di eroi tragici, assumono le dimensioni di giganti.           

La scrittura drammaturgica pirandelliana, correttamente va intesa come la continuazione della contestazione e della rottura del personaggio naturalistico e della vicenda passionale, già l’uno e l’altra dirottati e disposti dalla scrittura drammaturgica futurista, ma non tanto all’interno della scrittura drammaturgica, di per sé apparentemente sulla linea della tradizione naturalistica: e infatti personaggi e vicende dei drammi pirandelliani possono anche sembrare e proporsi verosimili e imitativi della vita e della realtà stando al linguaggio in cui si esprimono e con cui si svolgono; quanto nella scrittura scenica tout court, e cioè nella frantumazione accentuata e organizzata ( criticamente, a differenza di quanto era avvenuto nei futuristi che l’avevano costituita per divertimento e per impulso) dello spazio scenico, ove personaggi e vicenda si smarriscono per poi ritrovarsi, e cioè si deformano e si ristabiliscono, per successivi e alternantisi e sovrapponentisi punti di spazio rappresentativo.2

Nel 1925 Pirandello assume la direzione del Teatro dell’Arte di Roma. L’esperienza diretta dell’allestimento dello spettacolo, delle luci, degli effetti sonori, della recitazione sarà per Pirandello di grandissima importanza e arricchirà notevolmente le sue prospettive, mettendole in contatto, e talora in contrasto, con l’avanguardia europea, in particolare con l’espressionismo tedesco. Si viene, intanto, modificando in questi anni l’idea dell’attore come inevitabile traditore del personaggio; si potenzia, invece, l’ipotesi della possibilità per l’attore di assimilarsi al personaggio. Pirandello regista ripete ai suoi attori :”bisogna sentire interiormente, bisogna immedesimarsi nel personaggio”, dimostrandosi vicino alle indicazioni del russo Stanislawskij, fondatore a Mosca del Teatro dell’Arte, secondo il quale l’attore, perdendo ogni residuo di istrionismo e improvvisazione, diventa rigoroso interprete.

Nello stesso 1925, con La Sagra del Signore della nave, Pirandello inaugurò, nella doppia veste di autore e di regista il Teatro dell’Arte. Le didascalie di stampo strindberghiane e espressionistiche, i violenti effetti di colore e di suono, la “sconciatura” delle immagini che culmina nello “stiramento” spettrale dell’altissimo “…prete in cappa e stola, che reggerà davanti in alto con tutte e due le braccia il Signore della nave: grande macabro crocefisso insanguinato”, se si possono inserire senza nessuna forzatura nell’esasperazione espressionistica, certo sono anche l’approdo della ricerca tutta pirandelliana di un’intensità espressiva che si carica fino ai limiti della deformazione, ma sempre per essere perfettamente funzionale al sentimento e all’ambiente rappresentato. L’attività di regia di Pirandello è ispirata ad un concetto molto semplice: la messinscena deve essere rivolta ad illuminare lo spirito dell’opera da rappresentare. Non ci sono, dunque, regole precostituite. La messinscena potrà essere essenziale e sintetica, ma anche articolata e dettagliata, secondo le esigenze, mai però la cornice dovrà attirare l’attenzione a danno del testo.

In polemica con grandi registi e autori del tempo (Reinhardt, Piscator e Jessner), Pirandello compone il terzo dei “drammi da fare”, Questa sera si recita a soggetto. Il dottor Hinkfuss, il protagonista, è proprio uno di quei registi; ha preso come canovaccio una novella di Pirandello, Leonora, addio, sulla cui trama allestirà uno spettacolo a soggetto. Egli sa che l’opera e la messinscena sono due cose completamente diverse e si sente autorizzato dalla distanza incolmabile che separa lo spettacolo dall’opera d’arte a prescinderne quasi completamente o anche, il che è peggio, con il proposito di sottrarla alla sua “solitudine eterna e immutabile”, a servirsene come schematico strumento. Ma non soltanto l’opera , anche le luci, i suoni, le scena, la recitazione degli attori, si devono piegare alla sua creazione scenica:”Vi assicuro che le parole verranno da sé, spontanee, dagli atteggiamenti che assumerete secondo l’azione come io l’ho tracciata”. Ma la cosa non funziona! L’esperimento di Hinkfuss presenta molti lati negativi. Nelle confusione il primo attore gli dice:”Ci vuole l’autore”; e Hinkfuss risponde a denti stretti:”no, l’autore no, ma le parti scritte sì”. Come a dire che c’è bisogno dell’opera e del personaggio ben delineato. La conclusione è, come scrisse Pirandello nel 1930, che il teatro deve essere “reintegrato nei suoi tre elementi: poeta, regisseur e personaggio”. A patto che il regista sia non riscrittore ma fedele interprete dell’opera, autore dello spettacolo, completamento del poeta. Nell’aprile del 1929, infatti, su La fiera letteraria, vivacemente polemico con i registi più sopra citati, aveva scritto:”Le danze, le acrobazie, il circo equestre, i mutamenti di scena rapidi e con macchine potenti e perfette, hanno finito col diventare altrettanti mezzi di corruzione del teatro stesso.

Come si è visto, dunque, in Pirandello non è tanto la lingua a dover subire interventi radicali quanto tutto il linguaggio scenico, fatto anche di gesti, di situazioni, di interpretazioni.

 

 

IL TEATRO NEL TEATRO

 

Tentativi, anche riusciti, di portare in scena il teatro, i suoi meccanismi, la sua funzione disvelatrice, liberatoria, catartica, nella storia del teatro occidentale si ripetono. Basti pensare allo Shakespeare di Amleto o a qualche Goldoni (Il teatro comico e, poco conosciuta, l’Arcadia in Brenta). Ma l’utilizzo di questo modulo espressivo era semplice espediente, artifizio funzionale al dipanarsi dell’azione principale del dramma, talora autoreferenziale.

Con Pirandello diviene esperienza autonoma e fondante, e non solo nella cosiddetta Trilogia del “teatro nel teatro” (Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto) ma anche in molta altra produzione (si pensi ad esempio a Il giuoco delle parti, I giganti della montagna, Il berretto a sonagli, Enrico IV).

La situazione generale, comune, della trilogia mostra il “dietro le quinte” di uno spettacolo, del suo allestimento: e questo disvelamento, questo alzarsi di sipario, questa eliminazione, addirittura, della “quarta parete”, permettono all’autore di esporre con una efficacia difficilmente riscontrabile altrove, il suo manifesto poetico, filosofico ed esistenziale.

Permettono di mostrare le persone, le Maschere, nude, di rivelare come la realtà, ritenuta effimera, del palcoscenico e, lato senso, della creazione artistica sia più vera della quotidianità,  quali siano le difficoltà, le sofferenze, anche, per coglierla e l’impossibilità di impadronirsene. Si tratta di teatralità assoluta che è poi teatralità pura e semplice: riscoperta della natura originaria del teatro, della sua ragion d’essere prima, che è il legame tra l’Io e gli altri, e quindi della sua libertà.

Pirandello dà in spettacolo la situazione dell’attore.

In Sei personaggi in cerca d’autore sono di scena attori che si apprestano a fare gli attori, ossia che recitano la parte di attori. In libertà, sicchè, a rigore, non ci sarebbe bisogno di battute scritte: basterebbe recitare a soggetto. Le battute sono scritte perché bisogna che la scena sia tipica, e non è umano chiedere a degli individui di improvvisarsi quello che assolutamente non sono. Ma quel che questi attori hanno da dire, i gesti e le parole loro prescritti, sono così quotidiani, così banali, così veri che gli attori di fatto recitano come se improvvisassero, liberi: sono loro in persona, spogli dei prestigi dell’illusione, attori e null’altro, individui. L’effetto è di sorpresa assoluta: ecco il teatro, ecco gli attori, ecco la realtà nuda del teatro e degli attori. Questa realtà è una parvenza magica, una apparizione voluta: teatro. Ma in che cosa questa apparizione voluta è diversa da quelle che ci offre la vita? In questo soltanto, che, essendo proiettata dinanzi a noi, ci libera dal peso insopportabile del fatto, mette tra noi e il fatto una distanza infinita, uno spazio di libertà nel quale possono sorgere e svolgersi tutti i pensieri che la vita reale impedisce e svia. Il teatro non è illusione: è realtà che che finalmente appare. Noi non siamo fatti della materia dei sogni: sono i sogni a essere fatti della nostra stessa inafferrabile materia.

Scriveva Nicola Chiaromonte a proposito de’ Sei personaggi in cerca d’autore (ma le sue parole ben  si addicono a tutta l’esperienza del teatro nel teatro di Pirandello):

Questa liberazione dalla stolidità delle certezze abituali è già spettacolare: un colpo di scena e di genio di cui quasi non ci avvediamo, tanto esso è semplice, e tanto c’incanta. E’ alla nascita del teatro come realtà che assistiamo. Ed ecco che comincia il dramma: quello dei “personaggi”. Dei personaggi, non della trama prestabilita: la trama non c’è e non ci può essere. C’è, anzi c’è stato, solo il fatto grezzo della cui espressione i personaggi sono i frammenti non ricomponibili… Ciò che accade agli uomini, quando lo si consideri accaduto veramente perché veramente sofferto, è irreparabile: non si aggiusta né si compone, è. Il teatro rappresenta questo fatto o non rappresenta nulla. E si può far teatro come si vuole, cominciando dove si voglia e finendo nel punto che si preferisca: l’essenziale è presentare questo fatto nel suo contesto reale, che è il conflitto fra creature vere a proposito di ciò che è loro accaduto. Il mirabile gioco pirandelliano fra personaggi e attori, personaggi-fantasmi e attori realtà, personaggi-creature vere e attori-convenzioni volgari, col continuo scambio e rinvio dal teatro alla vita e dalla vita al teatro che lo accompagna, vuol dire questo e nient’altro”.1

Il contrasto ma anche il continuo intrecciarsi tra la vita e la forma, tra le realtà e la finzione, tra persona e personaggio, rivivono nella ribellione esistenziale di Enrico IV. Il protagonista recita da vent’anni la parte di Enrico IV, nei primi dodici con inconsapevole innocenza, negli ultimi otto per dolorosa necessità. Egli non ha altro nome se non quello dell’Imperatore del Sacro Romano Impero di cui impersonava la parte al momento della sua caduta da cavallo durante una cavalcata in costume nella sua lontana giovinezza: l’incidente lo ha tenuto prigioniero in quel personaggio per dodici anni. Quando rinsavisce si rende conto che è stato defraudato della sua giovinezza; la donna che amava e gli altri amici l’hanno vissuta, lui no, né può più riviverla ora. Il tempo scorre inesorabile e non aspetta nessuno. Eroica è la decisione di continuare a recitare la sua pazzia essendo impossibile il recupero degli anni perduti con un rifiuto che rende impraticabile ogni compromesso con la frode operata dal tempo. La scelta di continuare quella storica farsa assume il significato di una rivalsa sul tempo che non potrà più nemmeno sfiorare la sua esistenza volontariamente posta al di fuori della vita degli altri. Enrico IV è il suo vero nome, sotto il quale è costantemente vissuto e continuerà a vivere, il nome del giovane caduto da cavallo non esiste, come non esiste il suo futuro. Il tempo non condizionerà nemmeno la sua figura di personaggio: Enrico IV non invecchia (quasi come il Dorian Gray di Wilde), rimane fermo all’immagine dell’Imperatore ventiseienne, come appare nel ritratto giovanile in costume. Ma a interrompere la sua statica esistenza, fissata nell’immobilità della storia, sopraggiungono i personaggi della sua giovinezza, venuti a curiosare e a tentare di farlo rinsavire. La reazione sarà violenta, Enrico non vuole tornare a quella che il mondo chiama realtà: la sua finzione è più vera della vita che negli altri ha continuato a scorrere, cambiandoli, corrompendoli. Quando uno dei visitatori lo afferra gridando “Tu non sei pazzo”, Enrico lo ferisce al ventre con la spada, estrema gelosa difesa del proprio mondo. E’ un’istintiva reazione che lo lascia “con gli occhi sbarrati, esterrefatto dalla vita della sua stessa finzione che in un momento lo ha forzato al delitto”. La scena si chiude con Enrico tra i suoi finti Consiglieri segreti che dice :”Ora sì… per forza… qua insieme, qua insieme… e per sempre!”.

Nel secondo dei “drammi da fare”, Ciascuno a suo modo, Pirandello porta a compimento la crisi della rappresentazione tradizionale. L’azione, come nei Sei personaggi, non si snoda più all’interno del palcoscenico, come su un unico piano orizzontale, ma si compie in un intersecarsi simultaneo di piani diversi. I piani che si intersecano, sullo sfondo della mutabilità continua delle opinioni, sono tre: il primo è quello della vita vissuta, rappresentato dalla storia vera che ha ispirato il dramma che si mette in scena; il secondo è quello della “finzione d’arte”, rappresentato dallo spettacolo che è stato tratto da questo avvenimento; il terzo, infine, è il piano degli spettatori. Questi tre piani non rimangono divisi l’uno dall’altro, ma si compenetrano a formare un insieme dinamico e conflittuale. I veri personaggi della storia, presenti allo spettacolo, si ribellano quando vedono gli attori che li interpretano scambiarsi un abbraccio sulla scena. Salgono sul palcoscenico per protestare, per dimostrare che nutrono l’uno nei riguardi dell’altro un odio disperato. Ma una volta saliti sul palcoscenico ripetono l’abbraccio del copione teatrale:”L’arte può anticipare la vita, predirla”. Il pubblico, a questo punto interviene in prima persona  e uno spettatore intelligente commenta:”Si sono visti come in uno specchio e hanno fatto sotto i nostri occhi quello che l’arte aveva preveduto”. Lo spettacolo si arresta incompiuto. La mancanza di una conclusione ci lascia sospesi tra le varie problematiche emerse alla vana ricerca della coerenza unitaria delle originali trovate presenti nell’opera.

Bene si addicono a questo proposito le parole di Chiaromonte in occasione delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della morte di Pirandello:

A noi sarebbe piaciuto che, nel tributare onore a Pirandello, qualcuno avesse preso a tema del suo discorso le parole con cui Adriano Tilgher chiudeva il suo celebre saggio:”Con Pirandello, per la prima volta la letteratura italiana scopre che lo spirito non è quella cosa semplice a due dimensioni che finora aveva creduto”. Lo spirito, ossia, insomma, l’animo umano2.

Nella trilogia pirandelliana del “teatro nel teatro”, Questa sera si recita a soggetto è buona seconda, in ordine di importanza, dopo i Sei personaggi. Non si può dire che aggiunga qualcosa di essenziale a quello che rimane il capolavoro di Pirandello. Ma il tema del “teatro nel teatro” vi è confermato, chiarito e ribadito in maniera molto suggestiva; il canovaccio che sostiene la rappresentazione è teatralmente più convincente di Ciascuno a suo modo; l’idea di abolire il limite fra palcoscenico e platea, attori e spettatori, vi è realizzata più completamente che non nei Sei personaggi, con grande immediatezza e semplicità. Egualmente semplice è il modo in cui è condotto il contrappunto fra finzione drammatica e realtà del teatro, dramma vero e artificio scenico.

Si tratta di un’invenzione scenica composta di due motivi intrecciati e contrastanti: ci sono i tre brani appena sceneggiati della novella Sampognetta di Pirandello, e ci sono, inseparabili eppure distinti, gli urti, le dispute, le ribellioni provocate in una compagnia di attori all’impresa cui li ha chiamati il loro regista, di improvvisare (ma, assurdamente, rimanendo comandati da lui) una rappresentazione sulla falsariga della novella. La cacofonia creata dall’intrecciarsi e contrastare dei due motivi, dovrebbe, secondo le abitudini del teatro tradizionale, riuscire fatale, e invece risulta efficacissima, dovrebbe rompere l’unità dello spettacolo, e invece è elemento costitutivo essenziale di quella.

Il vero teatro, secondo Pirandello, non sta nella meccanica dell’intreccio, né in quello dello spettacolo, né nella combinazione di queste due. Il vero teatro è il dramma di cui i personaggi sono i portatori, la situazione morale e esistenziale in cui si trovano presi, in conflitti da cui sono lacerati e, insieme, accomunati. Il vero teatro è un “tribunale” di fronte al quale ciò che si giudica non sono le azioni finte di personaggi immaginari, ma la coscienza della società attuale, che lì è chiamata a rendersi conto di tutte le “realtà” in cui tanto crede e che tanto supinamente subisce quotidianamente, anzi della “realtà” in sé e per sé, che, messa lì a confronto con la finzione, appare tanto problematica.

L’appello pirandelliano all’improvvisazione è un appello alla “contemporaneità” assoluta del teatro, oltre che alla sua libertà da ogni impaccio formale e da ogni volontà autoritaria. Dandosi apertamente come finzione, non pretendendosi altro che luogo di confronto e  di giudizio, il teatro riacquista un potere di verità e di attualità che non aveva da secoli, guardingo com’era stato costretto a essere3.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note per “La Terra e il Fuoco”

Per l’allestimento del 2007

 

 (L'altro figlio - La giara)  

di Luigi Pirandello

 

Quali e quanti sono i fili che possono legare tra loro i due testi del grande Poeta Girgentano, L'altro figlio e La giara, che sono presentati in questo spettacolo?

Ognuno può cercare di dare la propria risposta a questa domanda.

E ogni risposta è legittima.

A noi sia permesso di proporne una, tra le diverse possibili.

Apparentemente, pur rappresentando entrambi, ad una prima sommaria e rapida lettura, che rischierebbe però di avere le stigmate della superficialità, bozzetti a forti tinte di vita siciliana, ancorati ad un qui e ad un'ora ben precisi, nulla li accomuna se non, appunto, quel qui e quell'ora.

A noi sembra, invece, che siano stazioni su una strada che conduce dal dolore profondo, senza fine, generato dalla condanna a solcare questa Terra che poche gioie regala e dalla privazione (di tutto: degli affetti più semplici e di quelli più grandi, dell'identità sociale e di quella culturale, dell'appartenenza ad una comunità e della linfa vitale della giovinezza, della forza delle braccia e di quella rigeneratrice della terra...), quale mostra L'altro figlio (atto unico del 1923 tratto dall'omonima novella del 1905), al tentativo di riscatto dal potere che deriva dalla sicumera del possesso, un potere che crede di tenere in pugno tanto le cose quanto le persone, ma che viene beffato con sapore luciferino da chi, invece, conosce e possiede il Fuoco del sapere e del saper fare, come sembra indicare La giara (altro atto unico del 1917 ricavato dalla omonima novella del 1909).

Il disincantato e beffardo conciabrocche Zì Dima de' La giara offre una possibilità di rivincita a tutti i perdenti, sia a quelli che ruotano attorno alla figura di Don Lolò, il committente e proprietario della gigantesca ma sfortunata giara per l'olio, che a quelli, rassegnati ma non ancora vinti, che sono protagonisti della storia del rifiuto di una maternità, partorita da una atroce violenza, che costituisce il nocciolo de' L'altro figlio: e la offre attraverso lo sberleffo che fa riandare alle medievali Feste dei Folli o alla Asinaria Festa, nelle quali i ruoli sociali, per un giorno, si invertono e il potente, o chi crede di esserlo, non può che chinar la testa davanti alla sagacia che fino ad allora aveva scambiato per stoltezza. E il "piccolo diavolo" può così riprendere la fattezze angeliche che solo la superbia gli aveva fatto perdere, lasciando il superbo a rodersi l'anima.

La Terra, impastata con le lacrime, quelle versate e quelle trattenute dai protagonisti de' L'altro figlio, viene cotta in giara, ma il Fuoco la riscatta con quel suo frammento rimastovi imprigionato che asciuga finalmente il pianto e scioglie la salsedine che questo aveva lasciato sulle guance percosse da un vento inesorabile.

E si potrebbe continuare...

 

 

La trama

L'altro figlio

A Farnia, nella Sicilia dei primi anni del Novecento, i giovani partono per le Americhe, in cerca di fortuna. Restano in pochi, ancorati al paese di origine, a tentare di non far morire una terra avara che inaridisce e diviene sterile, a vivere e ri-vivere vicende e dolori antichi, come la "Rivoluzione", che fu all'origine del dramma che vede da una parte un Figlio, rifiutato dalla propria madre, e dall'altra la Madre, che rigetta la propria maternità e detesta persino sentir parlare dell'uomo cui, suo malgrado, ha dato la vita.

Tra loro le "reliquie" umane del paese, che non possono far altro che farsi spettatori impotenti e rassegnati del rinnovarsi e perpetuarsi della tragedia.

 

 

La giara

Protagonista di questa conosciutissima opera pirandelliana è la civiltà contadina del profondo Sud, dipinta con freschezza di dialoghi e sapidi personaggi.

Una giara per l'olio, misteriosamente rotta, l'ira del suo proprietario, la trepidazione dei contadini e delle raccoglitrici d'olive, la calma strafottente del conciabrocche, la supponenza ironica dell'amico avvocato: tutto ciò a precedere il paradossale epilogo "giudiziario", risolto poi in modo del tutto spontaneo dal rissoso padrone della giara.

 

 

Note per “Il Berretto a Sonagli”

Per l’allestimento di Giuliano Polato

Marzo 2010

 

Or sono circa duemilacinquecento anni il grande filosofo greco Eraclito, quello del “panta rei” (del “tutto scorre”, per intenderci), scriveva, in uno dei frammenti che ci sono pervenuti, che “la guerra è madre di tutte le cose e di tutte le cose è regina”: ciò che si oppone “genera profonda armonia”, una “armonia per opposte tensioni, come nell’arco o nella lira”. Eraclito, cioè, diceva che i contrari sono l’uno complementare all’altro, strettamente legati l’uno all’altro dalla loro stessa opposizione: che sarebbe il caldo senza il freddo? Il forte senza il debole? L’essere senza il non essere? Nulla. Ma se consideriamo ogni contrario nella propria singolarità, non otterremo altro che una molteplicità sparpagliata che a nulla porta. Dobbiamo, invece, (ed è qui che interviene l’uomo che Eraclito definisce “saggio”) riuscire a cogliere nella loro opposizione l’elemento di unità, di armonia. Un corpo caldo, infatti, diviene freddo e può ritornare ad essere caldo con opportuni interventi; il forte può diventare debole in certe circostanze e ritornare forte in altre successive; l’essere continua a transitare dal non essere per tornare ad affermarsi come essere; ogni vivente muore ma dalla morte può nascere la vita (e qui gli accenni evangelici credo non manchino: dal chicco di grano al granello di senape, all’essenza stessa della fede cristiana che indica nella morte null’altro che un passaggio da una vita all’altra e nella morte e risurrezione di Cristo il transito necessario ad una nuova vita per l’umanità). E’ da questi continui passaggi che nasce il divenire, ciò che, ridotto a termini più essenziali e comprensibili, chiamiamo vita. E questo divenire non è mai fermo, è sempre cangiante, pur essendo sempre la stessa cosa, come il fuoco, elemento di riferimento del filosofo greco.

Ecco, da queste poche e, suppongo, confuse parole nasce la mia idea intorno alla fabula de’ “il Berretto a Sonagli” di Pirandello.

La vicenda è nota: istigata dalla Saracena, Beatrice, moglie tradita e delusa, cerca la sua vendetta contro il marito e la sua amante, a spese del coniuge di quest’ultima, lo scrivano impiegato del marito, Ciampa, nonostante i tentativi di dissuaderla da ciò del fratello Fifì e dell’amico delegato di P.S. Spanò e gli avvertimenti neppur tanto velati dello stesso Ciampa, Beatrice va sino in fondo, decisa a ottenere la sua personale vendetta, senza curarsi di ciò che questo rappresenta per la propria famiglia (la madre e il fratello) e per il povero scrivano. Ma… c’è un ma. Anzi, ce n’è più di uno. Non si vive soli a questo mondo: volenti o no siamo fibre di un ben preciso tessuto umano fatto di rapporti, relazioni, convenzioni, consuetudini. Ciò che crediamo far per noi stessi non può non aver riflesso su altri. La fisica, più tardi di Eraclito, dirà che ad ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria. E la vendetta di Beatrice si ritorcerà su di lei, non più vincitrice ma vittima: nient’altro che il divenire di cui prima si diceva.

Credo che una delle battute che meglio riassumano, a mio avviso, il senso di questo capolavoro sia quella di Spanò quando afferma, nella scena terza del secondo atto, “Perché la condizione nostra, qua, a tenere questo porco ufficio qua… nel nostro stesso paese nativo, è la cosa più infame che si possa immaginare”.

Ecco il conflitto. Anzi, uno dei conflitti da cui dovrebbe generarsi l’armonia ma che, non trovandosi saggezza in quasi nessuna delle persone del dramma, fallisce nel suo scopo. Forse solo la serva Fana riesce a vedere le cose con una quasi olimpica serenità, pur se partecipe e addolorata, e quindi a tentare di indicare la strada dell’armonia. Non riuscirà, però nel suo intento.

Diversi, dicevo, sono i conflitti, o meglio le loro tipologie. Vi è il conflitto sterile della Saracena, che cerca solo vendetta contro il mondo perbenista che la esclude e pertanto eccita l’animo di Beatrice; vi è la lotta di Fifì contro la pienezza del mondo di chi vorrebbe la verità contro la talora tranquillante realtà, i meccanismi della quale è male, perché faticoso, sconvolgere le regole ben oliate; vi è il conflitto di Beatrice contro l’altro da sé rappresentato dal marito che la tradisce, che ferisce il suo orgoglio e il suo onore, conflitto che vuole vedere l’altro sconfitto per il solo piacere della propria vittoria, indipendentemente dalle vittime che questa battaglia possa costare (quanti capi di stato e generali su ciò costruiscono le proprie fortune!); vi è il conflitto di Spanò, che si dibatte tra la fedeltà all’antica amicizia che lo lega alle famiglie di Beatrice e di suo marito e il dovere d’essere ligio alla propria funzione di rappresentante della Legge, dello Stato, dell’Ordine; vi è il conflitto della madre, che si batte perché, a dispetto di tutto, resti integro l’ordine delle cose che permette una vita, se si vuole superficiale, ma certo serena; vi è il conflitto di Ciampa con sé stesso, che si manifesta nei tentativi, prima, e nelle critiche e suggerimento finale, poi, affinché in altri si rifletta ciò che egli non è riuscito ad essere fino in fondo: non basta, infatti, essere un lucido analizzatore dei comportamenti umani individuali e sociali se si vuol essere pietra di cambiamento; certo, è necessario usare la propria “morale provvisoria” (per dirla con Cartesio), quella che ci costringe spesso ad usare le maschere, per riuscire, poi, a far trionfare l’idea di morale individuale, quella che ci consente di disvelare il nostro vero “io”; ma non è sufficiente. Bisogna avere il coraggio, o forse la saggezza, di fare sintesi su se stessi, e non solo sugli altri (in questo caso Beatrice), delle proprie analisi, essere protagonisti delle proprie conclusioni.

E così, a dispetto di Fana, lo scontro che avviene sul ring di questo dramma non può finire che con un verdetto di parità, o, al massimo, di vittoria, temporanea e illusoria, “ai punti”, per lo sfortunato scrivano.

Gli altri, i pupi, i manichini, non possono che stare a guardare la nostra sordità alle parole di Eraclito sull’armonia.

 

 

Giuliano Polato

 

 

 

 

APPUNTI PER IL PERSONAGGI DE’  “IL BERRETTO A SONAGLI”

Per l’allestimento di Giuliano Polato

Marzo 2010

 

 

La Saracena

Non più giovane. Non ha avuto molto dalla vita, specie da quella sentimentale. Crede di essere riuscita ad aver affermato la propria autonomia e indipendenza dando il “benservito” al marito che, ella sostiene, continua a cercarla. Ma questa suo stato l’ha portata ad essere esclusa e in qualche modo reietta dalla società dei benpensanti, dei perbenisti, nella quale deve, sempre e comunque, continuare ad essere intangibile l’ordine precostituito delle cose; un ordine fatto soprattutto di forme ipocrite spesso vuoto di contenuto. Contro questo mondo che la mette ai margini e che le fornisce l’unica compensazione della delazione, la Saracena lotta. A suo modo. Mostrandone le pecche, le “vergogne, le falsità. Non vuole vendicarsi contro chi non la accetta. No. Vuole solo una piccola rivincita. Essere protagonista di un qualche sconvolgimento di quell’ordine sociale che la considera elemento di disturbo. In fondo non desidera il male di altri, desidera forse, attraverso l’esperienza diretta del tradimento di quelli che gli altri considerano valori e alle umiliazioni che ne possono seguire, far comprendere a coloro che la respingono che vi sono esperienze che sfuggono al “normale” catalogo dell’ordine immutabile, che mutano e scardinano quest’ordine. E lotta, con le armi che ha, l’insinuazione del dubbio, l’alimentare la gelosia, contro chi vorrebbe sentirsi al sicuro dalla diversità, che ne ha orrore perché ogni cambiamento costa fatica, è scomodo, perché è sempre meglio non vedere, non sapere. La Saracena, invece, muove guerra a questa condizione omertosa, perché la verità non sempre coincide con la realtà fenomenica: vedere, toccare, constatare. E poi, accettare e, forse, perdonare.

 

 

Fana

La vita, resa ricca dalle esperienze vissute in prima persona e da spettatrice, l’ha resa saggia, forse sapiente. Ha superato il conflitto, ha compreso che dal conflitto può essere generata l’armonia, quella cui tende con ostinazione, al di là di tutto e di tutti. Non è in lotta con nessuno, se non con la lotta stessa, ma non con quella che genera unità, ma con quella sterile che crede che da ogni battaglia si possa uscire vincitori o vinti. Ella ha compreso che gli esiti di questo tipo di guerre non prevedono altro se non vinti: anche coloro che credono di aver guadagnato la palma della vittoria, hanno primeggiato solo grazie al venir meno alla propria umanità che li fa sedere trionfanti sui cadaveri degli sconfitti. Sa anche che vincere significa accettare che la propria vittoria è profitto per qualcuno che è stato alla finestra a guardare aspettando di nutrirci della nostra stanchezza, delle nostre spoglie. Vorrebbe poter comporre tutti i conflitti, suggerire, consigliare di liberarsi del demone della gara. Ma non vi riesce. La sua posizione sociale subalterna lo impedisce. Non le sue preghiere sono rispettate, ma la sua canizie. Forse è l’unica unica persona positiva e ottimista, proprio in virtù della sua visione negativa della lotta sterile e del suo pessimismo sui suoi esiti.

 

Beatrice

Viene da quella che si può considerare una buona famiglia borghese benestante e probabilmente influente. Contrae matrimonio con un esponente del medesimo ceto, se non di rango, almeno economico, più alto. Ne diviene moglie. Lo ama? Non si capisce. Certo gli ha postato rispetto e forse affetto. Ma il matrimonio non ha dato i frutti che in genere la buona società si aspetta: figli, o meglio, eredi, continuatori di una attività. La figliolanza è altra cosa. Dispendiosa, emotivamente e fors’anche economicamente. Beatrice è moglie. E’ anche sposa? Non credo. Tutto fa pensare che in quell’unione sia stata la forma a essere oggetto di cura e salvaguardia. Ma quando questa forma viene a mancare che resta? Quando viene meno colui cui hai dato la tua giovinezza, privandoti della libertà, del tuo essere più vero e profondo, in nome della suprema divinità dell’agiatezza, del benessere, della tranquillità, del conformismo e delle convenzioni che ti vogliono moglie per obbedienza e convenienza, che fare? Quando crolla il mondo al quale ti sei sottomessa, perché, in fondo, costa troppa fatica essere se stessi ed è più comodo essere “come tu mi vuoi”, come ti vuole e ti vedono tutti coloro che di quel modo fan parte, che fare? Oh, vorresti finalmente essere sposa e non semplicemente moglie. Vorresti essere donna e non solo persona di sesso femminile, buona per la compagnia, per il letto, per la procreazione, per l’esibizione sociale. Vorresti poter affermare che tu sei e non semplicemente appari, che non sei semplice oggetto, soprammobile, straccio utile a togliere la polvere che per un po’ si è posata su una carne annoiata. Vorresti dire al mondo che tu vali non in quanto moglie “di…” ma in quanto Beatrice. Vorresti dire che “nomina sunt substantia rerum”, che nei nomi sta l’essenza delle cose, che nel tuo nome sta la potenzialità di rendere felice e, pertanto, di essere tu stessa felice. Ma non hai più voglia, più forze per combattere la battaglia che porterebbe ad affermare tutto ciò, che ti farebbe ritrovare la tua unicità nel dilaniamento causato dall’essere donna e moglie, che farebbe ritrovare la musica che nasce dalla giusta composizione di suoni, parole, affetti. E allora Beatrice si abbandona all’unica battaglia per cui ha ancora energia per affinare le armi: la vendetta. Sterile, inutile, amara. Ma portatrice di illusorio appagamento. Non sa che la vendetta non paga. Esige, invece, uno scotto. E lo capirà. Troppo tardi. Avrebbe dovuto dire il suo “beee, beee” ben prima, affermare la propria autenticità e unicità: ha preferito il torpore del quotidiano conformismo. Ma la vita, prima o poi, presenta il suo conto. Non hai capito che moglie e sposa non sono la stessa cosa. E quando sei sul punto di comprendere è troppo tardi: davanti hai solo il baratro del tuo io ferito in cui rintanarti per difenderti. Ma non puoi difenderti da te stessa.

 

Fifì

Diceva il Principe di Salina “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Fifì è ancora più radicale: non vale la pena cambiare alcunché, troppa fatica. Dobbiamo trascorrere questa esistenza. Cerchiamo di passarci in mezzo senza problemi, senza affanni, tentando, per quanto possibile di trarre il maggior vantaggio possibile da ogni situazione e dalla “fatica di vivere” altrui. “Vivi e lascia vivere” sembra il suo motto (anche se sarebbe più esatto usare “esistere” al posto di “vivere”), senza preoccuparti troppo del domani o degli altri, a meno che non ti procurino noie, sempre da evitare, a qualsiasi costo, anche a quello della dignità propria o altrui. Se una mosca ti dà noia, scacciala. Se puoi evita di ucciderla, ma se è necessario, beh meglio la sua morte che il mio fastidio. Le uniche energie veramente spendibili sono quelle che servono a mantenere lo “status quo”, a lottare perché tutto resti immutato per la nostra tranquillità, perché nulla venga a turbare il nostro sonno che ci consente di vivere in un sogno completamente avulso dalla verità. Ma è sogno o incubo? La verità esige fatica, ricerca. No, meglio lottare perché ciò che mi è vantaggioso resti integro. Gli altri? Non li vedo, non li sento. Meglio essere sordi e ciechi e attraversare questo mondo con la leggerezza pesante dell’apparire.

 

Spanò

Come al protagonista del Dialogo Facetissimo di Ruzante, un cuore dice una cosa, l’altro cuore ne dice un’altra. Ma Spanò, di cuori ne ha più di due: uno gli dice che deve mantenere la fedeltà alla famiglia di Beatrice cui deve anche la posizione di rappresentante della Legge e dell’Ordine che,però, gli impone un altro cuore che gli impone d’essere ligio alle proprie funzione; un altro cuore ancora gli suggerisce di non mettere nei guai l’altro suo benefattore, il cavalier Fiorica, persona peraltro cospicua nella società in cui si trova a vivere; l’altro cuore ancora gli propone la prudenza, quella che impedisce che si generi lo “scandalo” che turba la quiete quotidiana, la stessa quiete che gli permette di tirare avanti senza scosse, servo solo della propria ignavia. E’ dura fare il suo mestiere con tutti questi cuori; è lacerante: che lotte si combattono in quella povera carcassa d’uomo. Aveva ragione il Galileo: nessuno è profeta in casa propria. Ma Spanò non pretende di essere profeta. Gli basta mantenere l’rodine: oh, non importa se è quello voluto dalla Legge di cui dovrebbe essere servitore, basta che sia quello imposto dalle consuetudini e dalle convenienze. Non è attrezzato di armi sufficienti a questa guerra più grande di lui, il povero delegato. Forse una dignitosa ritirata sarebbe stata più opportune, più comoda, più conveniente. Ma le cose non vanno sempre come vorremmo. C’è sempre un mulo di calabrese di mezzo. E non cresta che continuare ad esser pupi.

 

Ciampa

Potrebbe essere professore, deputato, ministro, re e, perché no?, papa. E’ solo lo scrivano nell’ufficio di un ricco e riverito borghese. Talora anche piccolo giornalista per diletto e sfogo. Non è più giovane. Ma giovane è la moglie. Una tentazione per sé e per gli altri, la sua Nina. Perciò la tiene sotto chiave. Nessuno deve vederle, parlarle. E’ sua proprietà da custodire gelosamente, da preservare da quel mondo che egli conosce per averne analizzato accuratamente e puntigliosamente le caratteristiche. Strano è quel mondo. Non propriamente brutto, ma strano. Non vi è posto per l’unicità ma solo per il fare schizoide. E’ un mondo, però, in cui sembra prevalere l’ipocrisia, anche la propria, quella che gli impedisce, in nome della “morale provvisoria, contrapposta a quella sua personale, di lottare per il cambiamento. Gli piacerebbe che le cose mutassero, ma non ha la forza, le energie per intraprendere la strada della novità. Si chiama Ciampa (non è casuale l’assonanza con Ciampa, tirare a sopravvivere in opposizione alla vita vera) e non Abramo. Non ha il coraggio di lasciare le strade vecchie che l’hanno portato a una relativa serenità e tranquillità per intraprenderne di nuove, ignote, che non si sanno dove porteranno, ma certo faranno respirare l’aria della libertà, della verità, dell’autenticità. Serenità e tranquillità relative, si diceva, perché c’è un tarlo che le rode: la gelosia, che nasce dall’insicurezza di se stessi e dell’amore che altri possono portarci, dal bisogni di tutelarci in anticipo contro ogni possibile attacco, anche quello forse più improbabile. Ciampa ha analizzato lucidamente tutto ciò che lo circonda, ne ha conoscenza intellettuale piena. Ma anche a lui la vita vera presenta il conto. La novità lo disarma e spunta le armi della sua intelligenza. Allora deve lottare perché le proprie riflessioni sull’umano agire possano avere effetto senza privarlo di una illusoria e apparente dignità agli occhi del mondo. E lotta con tutte le sue forze, a sangue, fino a riversare sull’altro la propria impotenza, fino a fare dell’altro il protagonista di quella vita che nella sua mente aveva così ben progettato ma che la vita stessa ha reso completamente diversa dall’immagine che si era formato. E così la vita altrui diventa la propria. Gli basta questo? Chissà!

 

Nina

Un bel tacer non fu mai scritto.

 

Assunta

Quante ne ha viste, quante ne ha subite, quante ne ha dovuto mandar giù in vita sua. Tradimenti, umiliazioni, sofferenze. Ma ha saputo continuare nella sua opera di conservazione della specie. Oh, no, non quella umana, i propri figli, i propri cari. No. La conservazione della specie dei benpensanti, dei perbenisti, quelli per cui, come per suo figlio, tutto deve restare come prima, tutto deve conservare il suo aspetto. Non importa se si tratta di sepolcri imbiancati pieni di putridume. L’importante è che le pietre su quelle tombe siano pesanti e ben sigillate così che non ne sfugga l’olezzo. E ha combattuto per questo. E continua a combattere. Si può darle torto? Perché permettere che tutto quel che ha costruito con tanta abnegazione, soffocando se stessa e i propri probabili giovanili impeti, vada distrutto dalla follia di un momento? Meglio una follia, anche se non del tutto accertabile, più lunga, non duratura. Solo più lunga. Anche se a esserne vittima e protagonista è il frutto del proprio ventre. Che importa? Interessi ben superiori lo impongono. E hanno nomi consueti e cari: quiete, tranquillità soporifera, convenienza, consuetudine, forma. Il mondo che l’ha vista esistere deve continuare, non può finire così.

 

 

Giuliano Polato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] L. Lunari BREVE STORIA DEL TEATRO, p. 200

[2] S. D’Amico  STORIA DEL TEATRO DRAMMATICO, vol. II p. 340

[3] vedi L. Lunari  BREVE STORIA DEL TEATRO, cap. III

[4] M. Argenziano  IL TEATRO (di Pirandello)  in  L. Pirandello  MASCHERE NUDE, p. 18

1 S. D’Amico  STORIA DEL TEATRO DRAMMATICO, vol. II p. 338

2 G. Bartolucci TEATRO CORPO – TEATRO IMMAGINE  in G. Poli  CONTENUTI E TECNICHE DEL TEATRO CONTEMPORANEO, p. 150

1 N. Chiaromonte  SCRITTI SUL TEATRO, pp. 124-125

2 N. Chiaromonte SCRITTI SUL TEATRO, p. 131

3 N. Chiaromonte  SCRITTI SUL TEATRO, p. 137