venerdì 22 gennaio 2021
giovedì 21 gennaio 2021
ITALIANO 3^ - Certificazione delle competenze/Esame di Stato. "Intervista impossibile": esempio completo
INTERVISTA IMPOSSIBILE
Un esempio (piccolo, sintetico e… banale)
Tra i tanti protagonisti del conflitto di cui in questi anni si celebra l’anniversario, c’è un Italiano, nato in Trentino, quando questo faceva ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico, CESARE BATTISTI, che fu impiccato nel Castello del Buonconsiglio di Trento, per tradimento, in quanto, al momento dell’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, si arruolò volontario nel corpo degli Alpini dell’Esercito Italiano e combattè contro l’Austria-Ungheria. Catturato, fu processato e quindi giustiziato.
Oggi, nella “fossa dei Martiri”, dove fu ucciso, nel giardino del Castello sede del Concilio che diede l’avvio alla Controriforma, abbiamo l’occasione di intervistarlo.
Tenente Battisti, cosa ci può raccontare della Sua vita?
Figlio di un commerciante, nacqui a Trento nel 1875 e vi morii nel 1916. Dedicai la vita alla causa della mia regione, il Trentino, per ottenerne l'autonomia amministrativa dall'Impero austriaco e l'annessione all'Italia. Nel 1893 mi iscrissi alla facoltà di Lettere dell’Università di Firenze e mi laureai con una tesi di geografia trentina, di cui anche in seguito continuai a occuparmi. Mi diedi giovanissimo alla vita politica conciliando irredentismo e socialismo. Soppressa al suo primo numero la Rivista popolare trentina (febbr. 1895), da me fondata, diedi vita alla Società degli studenti trentini e al settimanale socialista L'Avvenire del lavoratore (1896). Preclusa ogni altra soluzione dall'esistenza della Triplice Alleanza, per circa un decennio posi al centro del mio programma la lotta per l'autonomia amministrativa del Trentino e la richiesta di un'Università italiana a Trento. Nel 1900 fondai il Popolo e nel 1904 subii una breve prigionia a Innsbruck. Eletto nel 1911 deputato alla Camera di Vienna, mostrai nei miei discorsi di non credere più alla possibilità di una convivenza del Trentino con l'Austria. Scoppiata la prima guerra mondiale, mi stabilii, nell’agosto 1914, a Milano, sviluppando un acceso programma interventista, con discorsi di propaganda tenuti nei centri principali d'Italia. Dopo l'ingresso dell'Italia in guerra mi arruolai nel 5º Reggimento Alpini; sottotenente nel dicembre, partecipai a più azioni di guerra e fui più volte decorato, ma il 10 luglio 1916, sul monte Corno, fui fatto prigioniero con Fabio Filzi. Riconosciuto e sottoposto a giudizio marziale, fui condannato all'impiccagione; affrontai la morte il 12 luglio nel Castello del Buon Consiglio.
Ci ha detto che fu anche deputato. Per quale forza politica? A quali
idee si ispirava?
Fui deputato Socialista e alle idee di quel movimento mi ispiravo. Per Socialismo deve essere inteso un sistema generalizzato di idee, valori e credenze, finalizzato a guidare i comportamenti collettivi – e i movimenti, i gruppi, i partiti che li organizzano – verso l’obiettivo di un nuovo ordine politico in grado di eliminare o almeno ridurre le disuguaglianze sociali attraverso una qualche forma di socializzazione dei mezzi di produzione e correttivi applicati al meccanismo di distribuzione delle risorse economiche. In particolare, nel periodo in cui vissi, le idee di riferimento era no quelle del Socialismo Scientifico, che si rifaceva al pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels che ritenevano che solo un’analisi scientifica dei rapporti economici poteva consentire di elaborare un programma di azione rivoluzionaria del proletariato in lotta con la borghesia per l’attuazione del socialismo
Lei era spesso a Vienna. Com’era la vita di quella città in quel
periodo?
Allora Vienna era una delle capitali artistiche, letterarie, culturali dell’epoca.
Tanto per citare qualche esempio potrei citare Gustav Klimt (1862 – 1918), la cui vicenda artistica coincide quasi per intero con la storia della Secessione viennese. Con il termine Secessione si intendono quei movimenti artistici, nati a fine ’800 tra Germania ed Austria, che avevano come obiettivo la creazione di uno stile che si distaccasse da quello accademico. Di fatto, le Secessioni introdussero in Austria e in Germania le novità stilistiche dell’Art Nouveau che in quel momento dilagavano per tutta Europa. La prima Secessione nacque a Monaco di Baviera nel 1892. Fu seguita nel 1897 da quella di Vienna e nel 1898 da quella di Berlino.
La Secessione viennese fu un vasto movimento culturale ed artistico che vide coinvolti architetti (Olbrich, Hoffmann e Wagner) e pittori (Klimt, Moll, Moser, Kurzweil, Roller). La Vienna in cui questi artisti si trovarono ad operare era in quel momento una delle capitali europee più raffinate e colte. La presenza di musicisti quali Mahler e Schönberg, di intellettuali quali Freud e Wittegenstein, di scrittori quali Musil, rendevano Vienna una delle città più affascinanti d’Europa. L’aura "biedermeier" di Vienna era tuttavia l’apoteosi di un mondo che stava per scomparire, consapevole della sua prossima fine. Cosa che avvenne effettivamente con lo scoppio della prima guerra mondiale che decretò la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico.
Questa coscienza della fine, tratto comune a molta cultura decadentista di fine secolo, pone anche la Secessione viennese nell’alveo della pittura simbolista. E tale caratteristica è riscontrabile anche nella pittura di Klimt che rimane il personaggio più vitale ed emblematico della Secessione viennese.
Gustav Klimt nacque in un sobborgo di Vienna, e in questa città frequentò la Scuola di arti e mestieri. Giovanissimo, insieme al fratello ed un amico, diede vita alla prima società artistica, procurandosi commissioni per decorare edifici pubblici. Ne ricavò una certa notorietà e ulteriori commissioni, quale l’importante incarico di decorare l’aula magna dell’Università. Nel 1897 fu tra i fondatori e primo presidente della Secessione, partecipando sempre attivamente alle attività del gruppo da cui si distaccò in polemica nel 1906 per fondare una nuova formazione: la Kunstschau.
Klimt nei suoi primi lavori mostra una precisione di disegno e di esecuzione assolutamente straordinarie, ponendosi però in un filone di eclettismo storicistico tipico di una certa cultura del secolo scorso in cui gli elementi della tradizione, in particolare rinascimentale, vengono ampiamente rivisitati e riutilizzati. La sua personalità comincia ad acquisire una importante caratteristica intorno al 1890 quando la sua pittura partecipa sempre più attivamente al clima simbolista europeo. Ma la svolta che portò Klimt al suo inconfondibile stile avvenne dieci anni dopo con il quadro «Giuditta (I)» del 1901. Da questo momento il suo stile si fa decisamente bidimensionale, con l’accentuazione del linearismo e delle campiture vivacemente decorate. Due viaggi compiuti a Ravenna nel 1903 diedero a Klimt ulteriori stimoli. Da quel momento l’oro, già presente in alcune opere precedenti, acquista una valenza espressiva maggiore, fornendo la trama coloristica principale dei suoi quadri.
Il periodo aureo di Klimt si concluse nel 1909 con il quadro «Giuditta (II)». Seguì un periodo di crisi esistenziale ed artistica dal quale Klimt uscì dopo qualche anno. Il suo stile conobbe una nuova fase. Scomparsi gli ori e le eleganti linee liberty, nei suoi quadri diviene protagonista il colore acceso e vivace. Questa fase viene di certo influenzata dalla pittura espressionista che già da qualche anno si era manifestata in area tedesca. E Klimt l’aveva conosciuta soprattutto attraverso all’attività di due artisti viennesi, già suoi allievi: Egon Schiele e Oscar Kokoschka. La sua attività si interruppe nel 1918, quando a cinquantasei anni morì a seguito di un ictus cerebrale.
Un altro esempio è, stavolta in campo musicale, Gustav Mahler, compositore e direttore d'orchestra austriaco (Kaliště, Boemia, 1860 - Vienna 1911). Sensibile interprete di un mondo in crisi e prossimo alla dissoluzione, egli portò il linguaggio romantico a uno sviluppo estremo, aprendo la strada alla musica del Novecento. Artista dalla personalità problematica, come direttore d'orchestra raggiunse in vita una fama straordinaria, per il suo stile interpretativo nel quale introdusse criteri innovativi nell'orchestrazione, ma anche nella messa in scena e nella regia operistica. La valutazione della sua produzione come compositore fu invece spesso ostacolata da pregiudizi e incomprensioni, tanto che il suo apporto al rinnovamento del linguaggio musicale fu riconosciuto solo dopo il secondo conflitto mondiale. Mahler compose dieci sinfonie (di cui l'ultima incompiuta), caratterizzate da una ricerca timbrica e strumentale particolarmente innovativa e da una dilatazione fino a dimensioni insolite del numero dei movimenti, della loro durata e dell'organico impiegato; compose inoltre numerosissimi Lieder.
Artista dalla personalità problematica, Mahler, che ottenne unanimi consensi per la sua attività di direttore, non vide invece subito riconosciuta la sua opera di compositore, la cui valutazione fu ostacolata da pregiudizi e incomprensioni d'ogni genere. A lungo considerato inattuale, l'importanza della sua opera cominciò a delinearsi dopo il secondo conflitto mondiale, venendo riconosciuto il suo apporto al rinnovamento del linguaggio musicale. Da allora il giudizio su Mahler. è passato dal riconoscimento dei valori più genuini della sua concezione musicale a un'esaltazione talora eccessiva, restando aperto il problema di una definitiva chiarificazione del vero significato della sua opera, rappresentata da un patrimonio di composizioni ragguardevole, sia per la mole delle singole composizioni sovente caratterizzate da un grandioso dispiego dei mezzi espressivi, sia per gli indiscutibili valori poetici presenti in molte delle sue pagine più ispirate. Restano infatti dieci sinfonie (l'ultima è incompiuta), cicli di liriche vocali-strumentali (Kindertotenlieder, Das klagende Lied, Das Lied von der Erde, Rückert Lieder, Des Knaben Wunderhorn, oltre ai già citati Lieder eines fahrenden Gesellen) e pagine minori. Nelle composizioni sinfoniche (ispirate a un oscuro pessimismo, ove, in un drammatico oscillare di sentimenti, la visione ironica e amara dell'esistenza viene a tratti contrapposta a un sommesso e intimo lirismo, che tende a sciogliersi in un malinconico canto di speranza) si rispecchiano i caratteri più eloquenti e sofferti dell'esasperata personalità romantica di Mahler. Idealmente ricollegate alla tradizione che, dai classici viennesi, conduce direttamente all'esperienza sinfonica di Brahms e di Bruckner, le sinfonie, che costituiscono il nucleo centrale dell'opera mahleriana, tendono all'enormità sia nella lunghezza dei movimenti sia nell'ampiezza dei mezzi adunati (ad eccezione della Quinta – di questa ricordiamo il famoso Adagetto utilizzato da Luchino Visconti in Morte a Venezia -, Sesta e Settima esclusivamente strumentali, le sinfonie di Mahler si giovano anche dell'intervento di voci solistiche o corali). Raggiunto il vertice della potenza sonora nell'Ottava sinfonia, la cosiddetta Sinfonia dei Mille per l'eccezionale organico in cui un'immensa orchestra viene contrapposta a un doppio coro, Mahler ha lasciato nel ciclo Das Lied von der Erde, ispirato a liriche cinesi, una delle sue pagine più ispirate e poeticamente sentite. Non meno vigorosa, seppure stilisticamente diversa dalle precedenti composizioni per la semplificazione dei mezzi espressivi, si rivela la Nona sinfonia, opera in cui si avverte quasi un presagio di morte. Soprattutto in queste ultime composizioni, nella cosiddetta Trilogia della morte o del commiato, ove pare si possano cogliere i presentimenti della tragedia del primo conflitto mondiale e del crollo dell'impero asburgico, Mahler, mediante una scrittura armonica rivoluzionaria, è pervenuto al superamento e alla disintegrazione del linguaggio musicale romantico. Considerato all'epoca "inattuale", in confronto a R. Strauss, solo in tempi relativamente recenti a Mahler è stato riconosciuto il ruolo di antesignano della musica del Novecento, ovvero di "attuale" scopritore di nuovi importanti orizzonti musicali.
Ma tutto ciò era il preludio della catastrofe che si sarebbe abbattuta sul mondo dal 29 giugno 1918: la Prima Guerra Mondiale.
Ecco, veniamo al conflitto. Allo scoppio della guerra, l’Italia non
intervenne? Perché? E quali erano gli orientamenti dell’opinione pubblica
italiana?
La Triplice Alleanza era un patto difensivo segreto siglato tra Germania, Austria e Italia (20 maggio 1882), promosso dal cancelliere tedesco O. von Bismarck per isolare la Francia. Prevedeva l’aiuto reciproco tra Italia e Germania in caso di aggressione francese o se uno dei tre contraenti fosse stato attaccato da due potenze e neutralità nel caso che uno dei firmatari fosse indotto a dichiarare guerra. L’Italia, preoccupata per il proprio isolamento politico e per le possibili complicazioni della questione romana che coinvolgeva la Francia, entrò nel sistema degli imperi centrali nonostante le ostilità irredentistiche nei confronti dell’Austria. Il trattato, della durata di 5 anni, era integrato dalla dichiarazione, richiesta dall’Italia, che l’alleanza non potesse essere rivolta contro la Gran Bretagna.
Nel 1887 la Triplice Alleanza fu rinnovata con l’aggiunta di un patto italo-austriaco che prevedeva compensi nel caso di mutamenti nello statu quo balcanico e un patto italo-tedesco che garantiva all’Italia la situazione nell’Africa settentrionale. Nel rinnovo del 1891 questi patti furono incorporati nel trattato, costituendone l’art. 7 e l’art. 9. Inaspritisi i rapporti di Guglielmo II con la Gran Bretagna, al rinnovo del 1896 la Germania rifiutò di accompagnare di nuovo il trattato con la dichiarazione del 1882 riguardo alla Gran Bretagna. Nel 1902 l’Italia ottenne che l’Austria s’impegnasse a consentire una eventuale sua azione in Tripolitania e Cirenaica. L’alleanza fu ancora rinnovata nel 1908, quando l’annessione della Bosnia-Erzegovina all’Austria e la ripresa delle istanze irredentistiche italiane creavano le condizioni per un riavvicinamento tra Italia e Russia, conclusosi con l’accordo di Racconigi(1909). La situazione europea risultava ormai rovesciata, in quanto, pur sopravvivendo la Triplice Alleanza, si era creato un sistema di alleanze anglo-franco-russo, cui l’Italia si era accostata con accordi diretti con quelle potenze. Ma i risultati dell’impresa libica, che, rafforzando la posizione italiana nel Mediterraneo, portarono a un raffreddamento con la Francia e la Gran Bretagna, e la questione balcanica, che impegnava l’Austria, parvero ridare forza alle antiche preoccupazioni e così la Triplice Alleanza fu rinnovata nel 1912, aggiungendosi nelle convenzioni il riconoscimento della Libia italiana nello statu quo mediterraneo da mantenersi.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Italia dichiarò la propria neutralità in base all’articolo che stabiliva l’obbligo di aiuto reciproco solo nel caso di aggressione da parte di due potenze. Fallite le trattative con l’Austria per ottenere l’applicazione dell’art. 7, l’Italia denunciò il trattato (1915) motivando la denuncia con la violazione dei patti da parte dell’Austria.
I 10 mesi di neutralità spaccarono l'Italia del declinante Stato liberale in due fazioni che animarono la vita politica, culturale e sociale del paese.
Tra i neutralisti (cioè quelli che volevano che l’Italia non entrasse in guerra) c'erano quasi tutti i protagonisti dell'Italia Giolittiana: i Liberali, i Cattolici e la maggioranza dei Socialisti.
I primi erano impegnati alla difesa dell'ultima propaggine dello Stato post-risorgimentale. Il loro neutralismo era prudente e sostanzialmente debole, in bilico tra i timori di un rivolgimento sociale e politico che la guerra avrebbe potuto generare e i possibili vantaggi invocati dagli interventisti. Anche i Cattolici erano a favore del non intervento. Una parte di essi era legato ancora a posizioni oltranziste precedenti l'Unità d'Italia ed appoggiavano sostanzialmente l'Austria ultracattolica. Una parte del clero, degli intellettuali e dell'informazione cattolica si era invece rivolta verso la maggioranza contadina della popolazione italiana minacciata dalla chiamata alle armi e agli appelli pacifisti di Benedetto XV. Un'altra parte dei cattolici italiani seguì la teoria del'"Obbedire e tacere" formulata dal più importante esponente degli intellettuali cattolici, Padre Agostino Gemelli.
I Socialisti, legati all'internazionalismo pacifista, rimanevano in buona parte legati alla neutralità anche se la frangia anarco-sindacalista vedeva nella guerra un opportunità di rovesciamento sociale e di vittoria finale del proletariato.
Dall'altra parte dello schieramento, gli interventisti (che reclamavano l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa). La loro composizione era eterogenea e trasversale agli schieramenti ideologici e politici. C'erano i neo-risorgimentali rappresentati dal movimento Irredentista legato alla figura di Cesare Battisti i quali vedevano il possibile completamento del Risorgimento con le acquisizioni territoriali in caso di vittoria contro l'Austria-Ungheria.
La parte più consistente dello schieramento a favore dell'ingresso dell'Italia nel conflitto era rappresentata dal Nazionalisti. La loro azione politica era orientata fondamentalmente allo smantellamento del vecchio Stato liberale, nella quale confluivano forze antisocialiste, antidemocratiche e filo-imperialiste all'indomani dell'impresa italiana in Libia.
Al di là dei movimenti politici, a fare la parte del leone tra gli interventisti furono i rappresentanti dei nuovi movimenti culturali e artistici, primo tra tutti Gabriele D'Annunzio. Il vate aveva intuito l'importanza dei mezzi di comunicazione moderni (la sua voce era amplificata dal "Corriere della Sera" di Albertini) e godeva dell'appoggio di buona parte della borghesia industriale, vogliosa di protagonismo e stanca degli anni del giolittismo. L'azione culturale dannunziana fece da volano e contribuì ad accrescere l'irrequietudine e la tensione verso l'azione nel Paese. La corrente artistica che illustrò le teorie dell'intervento fu per eccellenza il futurismo, nato attorno aFilippo Tommaso Marinetti. Con lui si espresse a favore della guerra "sola igiene del mondo" Umberto Boccioni.
Alla loro sinistra vi erano i cosiddetti interventisti "democratici" come Leonida Bissolati e Gaetano Salvemini. Poi gli anarco-sindacalisti come Benito Mussolini e Filippo Corridoni, convertito all'interventismo dopo il fallimento degli scioperi del 1914 noti come la "settimana rossa".
Corridoni e Mussolini fondarono ognuno un proprio movimento interventista, con la denominazione comune di "fasci". Tennero comizi insieme, scrissero articoli di fuoco sulla necessità di purgare l'Italia dalla mollezza dello Stato Liberale, erano pronti a colpire la debolezza dell'educazione cattolica del Paese con un feroce anticlericalismo.
I 10 mesi di neutralità videro un ribaltamento della posizione anche da parte di Vittorio Emanuele III. Molto meno filotedesco di suo padre Umberto I, passò da un neutralismo blando all'appoggio della Duplice Intesa. La decisione dell'intervento fu tardiva e arrivò dopo che Francia e Inghilterra assicurarono all'Italia vantaggi territoriali riguardo alle terre "irredente" in caso di vittoria contro gli imperi centrali. Tra conflitti di piazza e di carta, si avvicinano le "radiose giornate di maggio". Gli ultimi barlumi della diplomazia di Giolitti si spegnevano e le piazze si riempivano di manifestanti a favore dell'ingresso in guerra contro l'Austria. Il 20 maggio Antonio Salandra consegna la dichiarazione di guerra dell'Italia. Con effetto il 24 maggio 1915.
Tra i più accesi interventisti c’era il poeta Gabriele D’Annunzio, come
ha ricordato. Conosceva qualcosa di lui, della sua vita, delle sue opere e
delle sue idee?
In Italia, campione del Decadentismo fu Gabriele D’Annunzio (1863-1938).
La sua vita intensa e ricca di avvenimenti clamorosi non impedì una altrettanto intensa e fervida attività letteraria, che trovò attuazione su tre versanti: quello della poesia, quello della prosa e quello del teatro.
La poesia dannunziana risente fortemente dell’influenza dei simbolisti francesi, anche se D’Annunzio non si limitò a un unico stile e a un solo “modo” di scrivere poesia. Ammirò e imitò la poesia italiana del Tre-Quattrocento, le suggestioni della poesia inglese da Shakespeare in poi e, attraverso sperimentazioni di tutti i tipi, giunse infine a trovare un linguaggio tutto nuovo, dove il sogno e la realtà si confondono e il poeta avverte, attraverso la malattia e l’isolamento, il senso del mistero, tipicamente decadente. Un’altra caratteristica della lirica dannunziana è quella del “panismo”, ovvero la capacità di abbandonarsi al ritmo della natura, per goderne le più intense suggestioni, entrando quasi a far parte di essa, sentendosi tutto nel tutto e uno in tutto. La sua poesia si distingue, infine, per l’estrema ricercatezza dello stile e della parole, scelta per il suono che riproduce e per la musica che riesce a creare. La più importante raccolta di poesie di D’Annunzio è costituita dai libri delle “Laudi” (Maia, Elettra, Alcione, cui si aggiunsero più tardi Merope e Asterope), in cui il poeta raccoglie i frutti migliori della sua capacità di fondere i temi e il linguaggio del patrimonio letterario italiano ed europeo. La sua produzione poetica comprende altre opere significative, tra cui “Canto novo”, “Intermezzo di rime”, “Il poema paradisiaco”.
Per quel che riguarda la prosa, D’Annunzio scrisse varie novelle ambientate in Abruzzo (la raccolta “Terra vergine” e “Novelle della Pescara” sono le più riuscite), che esprimono la violenza e l’animalità di un mondo primitivo, non illuminato da pietà né da sentimento religioso, popolato di contadine, pastori e pescatori. I personaggi sembrano trascinati da un destino crudele, in cui prevalgono l’omicidio, il suicidio, la malattia, nel vortice di una sconfitta che niente può riscattare. Il successo arrivò soprattutto nel campo del romanzo, dove volle cimentarsi concependo tre cicli:
- Il ciclo “della Rosa” (Il Piacere, L’innocente, Il trionfo della morte), che doveva avere come tema la “voluttà” (il piacere);
- Il ciclo “del Giglio” (Le vergini delle rocce) che doveva sviluppare il tema del superuomo, dell’esteta che conduce una vita eccezionale, caratterizzata del “bel gesto”, e si distingue dagli uomini comuni;
- Il ciclo “del Melagrano” (Il fuoco), che doveva sviluppare il tema della Bellezza.
Ma i temi di un ciclo si possono trovare nei romanzi di altri cicli: esempio tipico è Il piacere, il cui protagonista, Andrea Sperelli, che vive una vita sensuale e raffinata (ben superiore sia a de Esseintes di Huysmans che a Dorian Gray di Wilde) è allo stesso tempo esempio del Superuomo e dell’esteta, e ha come motto “habere, non haberi” (avere, non essere posseduto). Voluttà, Superomismo e Bellezza sono i temi su cui D’Annunzio costantemente ritorna, aderendo ai motivi ispiratori del decadentismo.
A partire dal 1896 D’Annunzio sviluppò anche una intensa attività teatrale, sia come autore che, possiamo dire, “regista” delle proprie opere (ricordiamo che in quegli anni in Italia ancora non esisteva la “regia”, che cominciava a muovere i suoi primi passi allora in Germania e in Francia). Il teatro dannunziano fu concepito come “arte totale”, in cui l’unione tra testo recitato, musica, canto e danza avrebbe dovuto conquistare il pubblico. I suoi lavori ebbero come protagoniste le attrici di maggior successo di quel periodo (Eleonora Duse, Irma ed Emma Gramatica, Sarah Bernardt) e la sua attività teatrale non fu sempre contrassegnata dal successo. Grande trionfo ottenne con La figlia di Iorio, tragedia di ambiente abruzzese interpretato da Irma Gramatica. Altre opre sono: Sogno di un mattino di primavera, La città morta, Francesca da Rimini, La fiaccola sotto il moggio, La nave, Fedra.
Scrisse anche per il balletto (per lui danzò Isadora Duncan) Le martyre de Saint Sebastien e per il cinema Cabiria.
Ma, come ho detto, non c’era solo D’Annunzio. C’erano anche Filippo Tommaso Martinetti e tutti gli esponenti del futurismo.
Che cos’è?
Il futurismo è un’avanguardia storica di matrice totalmente italiana. Nato nel 1909, grazie al poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti, il futurismo divenne in breve tempo il movimento artistico di maggior novità nel panorama culturale italiano. Si rivolgeva a tutte le arti, comprendendo sia poeti che pittori, scultori, musicisti, e così via, proponendo in sostanza un nuovo atteggiamento nei confronti del concetto stesso di arte.
Ciò che il futurismo rifiutava era il concetto di un’arte élitaria e decadente, confinata nei musei e negli spazi della cultura aulica. Proponeva invece un balzo in avanti, per esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità contro l’antico, la velocità contro la stasi, la violenza contro la quiete, e così via.
In sostanza il futurismo si connota già al suo nascere come un movimento che ha due caratteri fondamentali:
l’esaltazione della modernità;
l’impeto irruento del fare artistico.
Il futurismo ha una data di nascita precisa: il 20 febbraio 1909. In quel giorno, infatti, Marinetti pubblicò sul «Figaro», giornale parigino, il Manifesto del Futurismo. In questo scritto sono già contenuti tutti i caratteri del nuovo movimento. Dopo una parte introduttiva, Marinetti sintetizza in undici punti i principi del nuovo movimento.
Noi vogliamo cantar l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla
temerità.
Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali
della nostra poesia.
La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il
sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il
passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una
bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo
cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un
automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della
Vittoria di Samotracia.
Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta
ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua
orbita.
Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e magnificenza,
per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia
un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere
concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a
prostrarsi davanti all’uomo.
Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo
guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte
dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già
nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il
militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee
per cui si muore e il disprezzo della donna.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni
specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà
opportunistica.
Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla
sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle
capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei
cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde,
divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti
fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi,
balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che
fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle
rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante
degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra
applaudire come una folla entusiasta.
In un altro suo scritto, Marinetti disse come doveva essere l’artista futurista.
«Chi pensa e si esprime con originalità, forza, vivacità, entusiasmo, chiarezza, semplicità, agilità e sintesi. Chi odia i ruderi, i musei, i cimiteri, le biblioteche, il culturismo, il professoralismo, l’accademismo, l’imitazione del passato, il purismo, le lungaggini e le meticolosità. Chi vuole svecchiare, rinvigorire e rallegrare l’arte italiana, liberandola dalle imitazioni del passato, dal tradizionalismo e dall’accademismo e incoraggiando tutte le creazioni audaci dei giovani».
Il fenomeno del futurismo ha quindi una spiegazione genetica molto chiara. La cultura dell’Ottocento era stata troppo condizionata dai modelli storici. Il passato, specie in Italia, era divenuto un vincolo dal quale sembrava impossibile affrancarsi. Oltre ciò, la tarda cultura ottocentesca si era anche caratterizzata per quel decadentismo che proponeva un’arte fatta di estasi pensose quale fuga dalla realtà nel mondo dei sogni. Contro tutto ciò insorse il futurismo, cercando un’arte che esprimesse vitalità e ottimismo per costruire un mondo nuovo basato su una nuova estetica.
L’adesione al futurismo coinvolse molte delle giovani leve di artisti, tra cui numerosi pittori che crearono nel giro di pochi anni uno stile futurista ben chiaro e preciso. Tra essi, il maggior protagonista fu Umberto Boccioni al quale si affiancarono Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo e Carlo Carrà.
Il movimento ebbe due fasi, separate dalla prima guerra mondiale. Lo scoppio della guerra disperse molti degli artisti protagonisti della prima fase del futurismo. Boccioni morì nel 1916 in guerra. Carrà, dopo aver incontrato De Chirico, si rivolse alla pittura metafisica e come lui, altri giovani pittori, quali Mario Sironi e Giorgio Morandi, i cui esordi erano stati da pittori futuristi.
Nel dopoguerra il carattere di virile forza di questo movimento finì per farlo integrare nell’ideologia del fascismo, esaurendo così la sua spinta rinnovatrice e finire paradossalmente assorbito negli schemi di una cultura ufficiale e reazionaria. Questa sua adesione al fascismo ne ha molto limitato la critica riscoperta da parte della cultura italiana che ha sempre visto questo movimento come qualcosa di folkloristico e provinciale. La sua rivalutazione sta avvenendo solo da pochi anni e solo dopo che soprattutto la storiografia inglese ha storicamente rivalutato questo fenomeno artistico. Il futurismo, tuttavia, nonostante il suo limite di essere un movimento solo italiano, e non internazionale, ha esercitato notevole influenza nel dibattito artistico di quegli anni, contribuendo in maniera determinante alla nascita delle avanguardie russe, quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo.
La pittura futurista ha molte analogie con il cubismo e qualche notevole differenza. Il cubismo scomponeva l’oggetto in varie immagini e poi le ricomponeva in una nuova rappresentazione. Il futurismo non intersecava diverse immagini della stessa cosa ma interseca direttamente diverse cose tra loro. Il risultato stilistico a cui si giungeva era, però, molto simile ed affine. Del resto, non bisogna dimenticare che gli artisti futuristi erano ben a conoscenza di ciò che il cubismo faceva in Francia. Non solo perché il futurismo nacque, di fatto, a Parigi con Marinetti, ma anche perché uno di loro, Gino Severini, viveva ed operava nella capitale francese.
Ciò che invece distingue principalmente i due movimenti fu soprattutto il diverso valore dato al tempo. Come detto, la dimensione temporale era già stata introdotta nella pittura dal cubismo. Ma si trattava di un tempo lento, fatto di osservazione, riflessione e meditazione. Il futurismo ha invece il culto del tempo veloce. Del dinamismo che agita tutto e deforma l’immagine delle cose.
È proprio la velocità il parametro estetico della modernità. Del resto il mito della velocità per il futurismo ha degli impeti quasi religiosi. Disse Marinetti in un suo scritto: «Se pregare vuol dire comunicare con la divinità, correre a grande velocità è una preghiera».
Nei quadri futuristi, la velocità si traduceva in linee di forza rette che davano l’idea della scia che lasciava un oggetto che correva a grande velocità. Mentre in altri quadri, soprattutto di Balla, la sensazione dinamica era ricercata come moltiplicazione di immagini messe in sequenza tra loro. Così che le innumerevoli gambe che compaiono su un suo quadro non appartengono a più persone, ma sempre alla stessa bambina vista nell’atto di correre («Bambina che corre sul balcone»).
Il Futurismo esaltava, dunque, il progresso, la modernità, il movimento. A suo parere, cosa meglio esprime, tra i ritrovati tecnologici che si andavano sviluppando a quel tempo, questa idea di movimento e di progresso?
Ad esempio l’automobile, resa possibile dall’invenzione del motore a scoppio che è Motore alternativo a combustione interna ad accensione comandata, in particolare quello usato per la locomozione .Il lavoro utile di un motore a scoppio è ottenuto utilizzando la spinta esercitata dai prodotti della combustione (benzina, gasolio, e ora anche metano, gpl) su uno stantuffo (o pistone) che si muove di moto alternativo e a perfetta tenuta in un cilindro e che trasmette il movimento a un albero motore (albero a gomiti). La distanza fra le due posizioni estreme dello stantuffo si dice corsa. Il volume generato dallo stantuffo nella sua corsa si chiama cilindrata. Il diametro interno del cilindro è chiamato anche alesaggio. L'intero ciclo di funzionamento può essere realizzato in uno o due giri dell'albero motore, cioè in due o quattro corse dello stantuffo (motore a scoppio a 2 e a 4 tempi).
L'idea del motore a combustione interna risale addirittura al 17° sec., quando si pensò di impiegare la polvere nera come sostanza capace, deflagrando, di produrre una depressione in una camera chiusa così da ricavare un'aspirazione di acqua nella camera stessa. L'impossibilità di utilizzare il lavoro di esplosione per ottenere un lavoro regolare e continuo non permise di giungere ad applicazioni pratiche. Nel 1856 gli italiani E. Barsanti (1821-1864) e F. Matteucci (1808-1887) costruirono il primo vero motore a combustione interna a cilindro unico ad asse verticale che trasmetteva il movimento all'albero motore per mezzo di un'asta dentata. Nel 1860 il francese J.-J.-É. Lenoir costruì un motore simile al precedente, in cui la miscela aria-gas illuminante, aspirata per una parte della corsa, era accesa per mezzo di una scintilla ad alta temperatura e lo scarico dei gas combusti avveniva nella corsa di ritorno del pistone. Nel 1876 N.A. Otto (1832-1891), tedesco, costruì il primo motore ad accensione comandata a quattro tempi; nel 1875 F. Forest e nel 1879 D. Clerk (1854-1932) studiarono e costruirono modelli di motori funzionanti secondo il ciclo a due tempi. Nel 1892 il tedesco R. Diesel (1858-1913) brevettò il motore che porta il suo nome.
Certo i mezzi che ha descritto permettono un collegamento veloce tra
tante parti del mondo. Ecco, Ella, appassionato di problemi geografici, ha mai viaggiato fuori dall’Europa? E se
non l’ha fatto, quale paese Le sarebbe piaciuto visitare?
Mi ha sempre incuriosito il Canada.
Il Canada è una monarchia costituzionale, ad ordinamento federale,[situata nell'America del Nord e comprendente dieci province e tre territori. Esso è delimitato dall'Oceano Atlantico ad est, dall'Oceano Pacifico ad ovest e dal Mar Glaciale Artico a nord.
È il secondo paese più esteso del mondo (dopo la Russia) e il suo confine con gli Stati Uniti d'America (8 893 km) è il più lungo del mondo separante due stati; abitato per millenni da popolazioni aborigene, il Paese fu colonizzato da francesi ed inglesi all'inizio del XVII secolo, in prossimità della costa atlantica. La Francia cedette gran parte dei suoi territori al Regno Unito nel 1763 a seguito della sconfitta subita durante la guerra franco-indiana, teatro nordamericano della guerra dei sette anni. Nel 1867 nacque la federazione canadese, con l'unione di tre colonie del Nord America Britannico, che in seguito divennero quattro per la scissione di una di queste in due nuove province. Nel corso del tempo, si aggiunsero sempre più province.
Il Canada è uno stato federale, governato con un sistema parlamentare nell'ambito di una monarchia costituzionale, il cui capo, ora, è Elisabetta II del Regno Unito. È uno Stato con due lingue ufficiali (inglese e francese) e con una popolazione di circa 35 milioni di persone. L'avanzata economia canadese porta il paese a collocarsi all'11º posto al mondo per PIL nominale, in quanto essa si basa principalmente sulle sue abbondanti risorse naturali e sulle sue ben sviluppate reti commerciali, specialmente con gli Stati Uniti d'America, con cui ha lunghe e complesse relazioni.
Il Canada è una delle nazioni più sviluppate del mondo, stando all'ottavo posto per PIL pro capite e piazzandosi al sesto posto per indice di sviluppo umano. Di conseguenza, il Canada è ai primi posti al mondo per alfabetizzazione, trasparenza del sistema politico, qualità della vita, libertà civili ed economiche. Esso fa parte di numerosi organismi internazionali, come il G7, il G8, il G20, la NATO e l'ONU.
Il nome ebbe origine nel 1535, durante le esplorazioni lungo il fiume San Lorenzo compiute da Jacques Cartier. Alcuni Irochesi si riferirono al villaggio di Stadacona, la futura città di Québec, usando il termine kanata (che nella loro lingua vuol dire villaggio, comunità). Jacques Cartier utilizzò così il nome Canada per tutto il territorio in cui si trovava il villaggio di Stadacona. Negli anni seguenti il nome indicava sulle carte geografiche tutti i territori a nord del fiume San Lorenzo.
Nei secoli XVII e XVIII il nome Canada venne utilizzato per indicare i territori della Nuova Francia, estendendone via via l'uso fino a ricomprendervi le sponde settentrionali dei Grandi Laghi. L'area fu successivamente divisa in due parti: l'Alto Canada ed il Basso Canada. Le due colonie furono riunite nel 1841, con il nome di Provincia del Canada.
Nel 1867, infine, il British North America Act unì Nuova Scozia e Nuovo Brunswick a Québec e Ontario, facendone "un unico dominio sotto il nome del Canada".
La morfologia del territorio canadese ha un'importanza minore rispetto al clima, per quanto riguarda gli insediamenti umani. Il Canada è, infatti, un territorio per gran parte pianeggiante, con rilevanti catene montuose solo a occidente e nel senso dei meridiani, per cui le condizioni di abitabilità sono essenzialmente in diretta funzione del clima: dove esso è meno polare si ha la parte più densamente popolata del Paese. Questa corrisponde alla fascia più meridionale, che si appoggia al confine degli Stati Uniti fino alla costa del Pacifico. Seguono il "Canada medio" ed il "Canada alto", dove la nordicità è già molto accentuata; infine c'è l'estremo nord, che ha un clima polare. Importanti catene montuose sono le Montagne Rocciose Canadesi, poste a occidente, e la Cordigliera Artica nelle terre estreme del Nord. La montagna più alta del Canada è il Monte Logan nello Yukon con i suoi 5 959 metri.
Il Canada possiede più laghi ed acque interne di qualsiasi altro paese al mondo. Oltre ai Grandi Laghi, che si estendono in gran parte negli Stati Uniti, i più estesi del paese sono il Grande Lago degli Orsi e il Grande Lago degli Schiavi nei Territori del Nord-Ovest; il lago Athabasca nelle province di Alberta e Saskatchewan; il lago Winnipeg e il lago Manitoba nella provincia di Manitoba e il lago Mistassini nella provincia di Québec.
I principali fiumi canadesi sono il San Lorenzo, emissario dei Grandi Laghi, che sfocia nel golfo omonimo (vedi Golfo di San Lorenzo); l'Ottawa e il Saguenay, principali affluenti del San Lorenzo; il Saint John, che confluisce nella Baia di Fundy, tra la Nuova Scozia e il Nuovo Brunswick; il Saskatchewan, che forma il lago Winnipeg, e il Nelson, che da questo lago raggiunge la baia di Hudson; il sistema formato dai fiumi Athabasca, Peace, Slave e Mackenzie, che sfociano nel Mar Glaciale Artico; l'alto corso dello Yukon, che attraversa l'Alaska e raggiunge il mare di Bering; il Frese e il corso alto del Columbia, che sfociano nell'Oceano Pacifico.
Le temperature medie estive e invernali del Canada variano a seconda della porzione di territorio cui si fa riferimento. Gli inverni sono molto rigidi nella maggior parte delle regioni del Paese, particolarmente nell'entroterra dove le temperature medie durante tale periodo oscillano intorno ai −15 °C, con picchi sotto i −40 °C. Nello Yukon le medie di gennaio arrivano a −34 °C con un record di −59 °C (2ª temperatura minima in Nord America dopo Prospect Creek in Alaska con i suoi −62,1 i°C). Nell'entroterra il suolo è coperto dalla neve da 3 a 5 mesi l'anno per le regioni meridionali; il manto nevoso copre il suolo per 6 mesi nelle zone centrali e 7 o 8 mesi al nord. Nei punti più settentrionali la neve è perenne.
La costa occidentale del Canada gode di inverni meno rigidi dell'interno e piovosi, con temperature medie in gennaio anche superiori a 0 °C. Le precipitazioni nevose sono discontinue e non durano più di due settimane. La costa orientale fino al 50º parallelo ha un clima continentale (circa −7° a gennaio e 22° a luglio), dal 50º al 58º parallelo ha un clima subartico, con inverni freddi (medie di gennaio da −10° a −21°) ed estati fresche (medie di luglio tra i 12° e i 20°). A nord del 58º parallelo il clima è artico a causa della corrente fredda del Labrador: nessun mese ha medie superiori a 10°, quelle di gennaio arrivano a −24°, vi sono gli orsi polari, vi crescono solo muschi e licheni, le medie sono sotto zero per 8 mesi. Nell'interno del Labrador il clima è circa dello stesso tipo per la latitudine ma gli inverni sono un po' più freddi e le estati un po' più calde (Kuujiiaq, circa 58° N, ha estremi di gennaio di −19°/−28° e di luglio di 5°/17°; in altri posti a gennaio si arriva a −28° di media).
D'estate nelle regioni costiere le temperature più alte si aggirano intorno ai 20 °C, mentre all'interno le temperature medie estive variano tra i 25 e i 30 °C con punte di 40 °C.
In Canada una delle due lingue ufficiali è il francese, che Ella
conosce. Sa, in particolare, dove viene parlato?
(Quebec, in francese)
Tornando alla guerra che La vide protagonista, quale, secondo Lei, fu
uno degli eventi che ne determinarono la sorte?
L’ingresso degli U.S.A. nel conflitto, con tutta la sua potenza industriale, economica e militare, di cui, se vuole, le posso parlare nella lingua del luogo… (U.S.A., in inglese)
Purtroppo la guerra cui partecipò non provocò morti solo a causa delle armi da fuoco…
No, furono impiegati anche i gas.
L'utilizzo della chimica in campo militare fu una delle principali cause dell'alto tasso di mortalità verificatosi nei campi di battaglia della Grande Guerra. Così come per le altre novità del tempo, anche la ricerca scientifica nel campo della chimica aveva fatto passi da gigante tanto che in alcuni Paesi fu uno dei settori più incisivi durante la Seconda Rivoluzione Industriale (come ad esempio in Germania). Le sperimentazioni e le combinazioni di alcuni elementi portarono da un lato a dei grandi vantaggi nella vita di tutti i giorni ma anche alla nascita di sostanze nocive per la salute dell'uomo. A questo proposito, all'inizio del XX secolo alcuni eserciti iniziarono a considerare l'utilizzo della chimica anche per ottenere un indiscutibile vantaggio in una guerra contro un avversario privo delle dovute precauzioni.
Nel periodo della Grande Guerra i
gas più diffusi furono due: il fosgene e l'yprite. Il primo venne
inventato nel 1812 da un chimico inglese, John Davy, che lo utilizzò
inizialmente per la colorazione chimica dei tessuti. Si trattava di un composto
formato da cloro e ossido di carbonio che se respirato poteva provocare la
morte in quanto andava ad attaccare le vie respiratorie. Il secondo invece fu
scoperto mezzo secolo più tardi da un altro chimico inglese, Samuel Guthrie,
che mescolò il cloro e lo zolfo. Chiamato anche "gas-mostarda" per il
suo odore simile alla senape, l'yprite colpiva direttamente la cute creando
delle vesciche su tutto il corpo e, se respirato, distruggeva l'apparato
respiratorio.
Il fosgene venne impiegato la prima volta nel 1915 dall'esercito tedesco contro
le truppe francesi attraverso il lancio di apposite bombe. L'anno successivo
toccò agli italiani che, sul Monte San Michele, subirono per la prima
volta un attacco chimico da parte degli austro-ungarici (29 giugno 1916). In
questo caso però le bombole di gas non furono lanciate, ma vennero aperte
creando così una nube tossica che venne poi sospinta dal vento.
Nel settembre 1917 fu la volta dell'yprite che venne utilizzata dai tedeschi sul fronte orientale durante la battaglia di Riga. Il mese dopo a Plezzo, sul fronte dell'Alto Isonzo, gli austro-germanici bombardarono le linee italiane con le stesse bombe assicurandosi così un vantaggio fondamentale nella Dodicesima Battaglia dell'Isonzo.
Accanto a queste due sostanze
altamente tossiche, furono largamente utilizzati anche altri gas con un minor
impatto sulla mortalità dei soldati. Comparvero in questo periodo
i lacrimogeni ed i gas starnutenti, utilizzati già alla fine del
1914 sul fronte franco-tedesco. Sebbene provocassero diversi disturbi a livello
organico, questi ultimi avevano degli effetti temporanei che non portavano alla
morte.
Con la comparsa dei gas nei campi di battaglia gli eserciti si adoperarono anche
per prevenirne gli effetti distribuendo ai soldati delle rudimentali
maschere antigas. Non conoscendo però la composizione chimica delle sostanze,
molte non funzionavano. L'esercito italiano (ma anche altri) ne distribuì un
esemplare che non fu in grado di contrastare né il fosgene né l'yprite.
D'altronde la stessa conoscenza sulla chimica era talmente bassa che i soldati
furono istruiti, in caso di mancanza di maschere durante un attacco chimico, ad
infilarsi un pezzo di pane bagnato in bocca(che simulava il filtro)
coprendo poi il viso con un fazzoletto.
E si morì anche per le malattie contratte nelle trincee.
Durante la Grande Guerra uno dei problemi principali fu la diffusione delle malattie. La vita in trincea fu talmente difficile e precaria che era praticamente impossibile, per un soldato al fronte, trascorrere questo lungo periodo senza problemi fisici. Il freddo, l'assenza di ripari, la completa mancanza di igiene personale per diverse settimane, il cibo mal conservato e consumato in mezzo alla sporcizia assoluta e la mancanza di latrine erano solo alcune delle cause che contribuirono alla diffusione di germi, batteri e virus.
Tra le malattie più diffuse negli anni della guerra ci furono il tifo, il colera e la dissenteria. Molti inoltre si ammalarono per patologie legate alle vie respiratorie (basti immaginare un soldato zuppo d'acqua sul Carso sferzato dal gelido vento di bora o un alpino a 2000 metri di altitudine), alla promiscuità nei periodi di riposo sulle retrovie ed alle infezioni che si espandevano per una ferita, anche banale. È stato calcolato come tra gli italiani almeno 100 mila uomini morirono per malattia. Nel 1918 inoltre, come se non bastasse, giunse in Europa la terribile epidemia dell'influenza "Spagnola" che decimò l'intera popolazione (anche quella civile).
Non meno importanti poi furono le malattie psichiche dovute ai lunghi periodi passati sul fronte. Un incubo per molti soldati, giovani e non, costantemente minacciati dalla morte. Chiunque fosse schierato in prima linea era consapevole che, in qualsiasi momento, sarebbe potuto morire: i bombardamenti dell'artiglieria nemica furono incessanti ed i cecchini non mancavano mai di vigilare e di sparare sugli obiettivi. Anche solo un gesto imprudente, come alzarsi dalla trincea, poteva costare la vita ad un soldato.
La vista costante di cadaveri non aiutava certo a migliorare la situazione resa ancora più tragica dal duro atteggiamento tenuto dagli ufficiali. Ogni battaglia, come si legge in molti diari dei protagonisti, era attesa con un silenzio irreale. Privati della possibilità di ribellarsi, i soldati uscivano dalle trincee rassegnati e alle volte in lacrime sapendo che, chiunque avesse esitato sarebbe stato punito.
Fu in questi anni che nacque l'espressione "Scemo di guerra" per indicare tutti quegli uomini che, durante o dopo la Grande Guerra, furono colpiti da patologia mentale. Essendo una materia ancora oscura, tra i medici si diffuse la pratica dell'elettroshock come tentativo di cura, provocando ulteriori dolori e complicanze a coloro che ritornarono dal fronte.
La Sua esperienza della guerra, così tragicamente conclusasi, quale
insegnamento può portare alle giovani generazioni?
Che la Pace è la migliore tra le condizioni in cui può e deve vivere l’Umanità. Un Pontefice, vissuto molto dopo la mia morte, Paolo VI, ebbe a dire, contrariamente a quanto affermavano i romani (se vuoi la pace, prepara la guerra), “Se vuoi la Pace, lavora per la Giustizia”. E i giovani Italiani hanno a disposizione un grande, ottimo strumento per fare questo, la Costituzione della Repubblica Italiana che, nei suoi primi cinquantaquattro articoli (Principi Fondamentali e Parte Prima – Diritti e Doveri dei Cittadini), dichiara quali siano i principi e i diritti e doveri indispensabili ad un vivere civile giusto e solidale.
La ringrazio e La lascio tornare a… qualunque sia il luogo in cui ora
si trova. Addio
Addio! E… non dimenticatemi.
martedì 19 gennaio 2021
ITALIANO 3^ - Letteratura. Gabriele D'Annunzio: "La pioggia nel pineto" e "Consolazione"
Gabriele D'Annunzio - Alcione
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sìche par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
(Data di composizione ignota. Probabile fra la metà di luglio 1902 e la metà dell'agosto dell'anno successivo)
Gabriele D’ Annunzio - Consolazione
Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.
Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancóra per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.
Ancóra qualche rose è ne' rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l'abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.
Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l'oblìo afflisse.
Che proveresti tu se fiorisse
la terra sotto i piedi, all'improvviso?
Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
sol di settembre; e ancor non vedo argento
su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.
Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po' di sole,
un po' di sole su quel viso bianco.
Bisogna che tu sia forte; bisogna
che tu non pensi a le cattive cose...
Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l'anima tua sogna.
Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.
Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.
Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
Io parlo. Di': l'anima tua m'intende?
Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende
quasi il fantasma d'un april defunto.
Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)
ha ne l'odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l'odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.
Sogniamo, poi ch'è tempo di sognare.
Sorridiamo. È la nostra primavera,
questa. A casa, più tardi, verso sera,
vo' riaprire il cembalo e sonare.
Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancora manca. E l'ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l'ava.
Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po' passate,
sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suono sarà velato, fioco,
quasi venise da quell'altra stanza.
Poi per te sola io vo' comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.
Tutto sarà come al tempo lontano.
L'anima sarà semplice com'era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l'acqua al cavo de la mano.
mercoledì 13 gennaio 2021
ITALIANO 3^ - Letteratura. Simbolismo e Decadentismo
Il Simbolismo (C. Baudelaire, A. Rimbaud, P. Verlaine, S. Mallarmé)
Il “Simbolismo” fu un movimento artistico-letterario francese, sviluppatosi fin dalla metà del secolo XIX, che anticipò il Decadentismo e che prese l’avvio da una raccolta di poesie di Charles Baudelaire (1821-1867), I fiori del male (1857).
I simbolisti francesi affermavano che è impossibile conoscere la realtà attraverso l’esperienza, la ragione, la scienza, e che l’unico modo per avvicinarsi alla verità, avvertita come mistero, è offerto dalla poesia e, più in generale, dall’arte, che non spiega ma intuisce quello che la ragione non può comprendere.
Il Decadentismo
Il termine Decadentismo deriva dal titolo di una rivista francese “Le décadent”, intorno alla quale si radunavano i nuovi letterati, che avvertivano la propria diversità rispetto ad una società tutta protesa verso interessi materiali e, per distinguersi da quella che essi chiamavano la volgarità e la rozzezza interiore dei contemporanei, si rinchiudevano in una orgogliosa solitudine.
I decadenti, quindi, fin dal primo momento, apparvero in contraddizione con il loro mondo. Questa contraddizione si manifestava anche nel loro modo di vivere: infatti per contestare la società borghese e capitalistica si abbandonavano a una vita sregolata, dandosi all’alcool, al fumo, alle droghe.
Questo modo di essere e di sentire cominciò a tradursi in varie opere letterarie, in cui si possono individuare alcuni tratti comuni:
- l’irrazionalismo (sfiducia nella ragione)
- la tendenza verso l’ignoto e il mistero
- l’individualismo esasperato, che si risolve in atteggiamenti da superuomo o da esteta (colui che gode nella ricerca esasperata della Bellezza e dell’Arte e vuol fare della sua vita stessa un’opera d’arte): questi atteggiamenti dimostrano la volontà, da parte del poeta decadente, di distinguersi dal gregge, come egli chiama con disprezzo le altre persone
- l’analisi dell’inconscio, cioè della vita profonda della coscienza che sfugge alla ragione
- la poesia come intuizione della realtà misteriosa dell’universo
- la ribellione, la fuga, la solitudine
- l’uso di un linguaggio poetico fondato sulla metafora, sull’analogia, sulla musicalità.
In Francia troviamo lo scrittore Joris-Karl Huysmans (1848-1907): nel romanzo “Controcorrente” o “A ritroso” egli rappresenta un nobile decaduto (des Esseintes) che, per sfuggire alla meschinità e alla volgarità di una vita qualsiasi, si rifugia in un mondo raffinato e pieno di oggetti rari che suscitano le sensazioni più sottili e più strane.
In Inghilterra troviamo un personaggio simile, ma di gran lunga superiore, ne’ “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde (1854-1900): il romanzo racconta la storia di Dorian Gray, un giovane bello e invidiato, che conduce una vita raffinata e sregolata e che, mentre il suo ritratto invecchia, rimane sempre giovane nonostante il passare degli anni; alla fine, in un impeto di disperazione, Dorian squarcerà il proprio ritratto, divenuto repellente, provocando la propria morte.
Intanto, nella Milano degli anni
’60 e ’70 dell’Ottocento, si era sviluppato un movimento che preannunciava il
Decadentismo:
In Italia, campione del Decadentismo fu Gabriele D’Annunzio (1863-1938).
La sua vita intensa e ricca di avvenimenti clamorosi non impedì una altrettanto intensa e fervida attività letteraria, che trovò attuazione su tre versanti: quello della poesia, quello della prosa e quello del teatro.
La poesia dannunziana risente fortemente dell’influenza dei simbolisti francesi, anche se D’Annunzio non si limitò a un unico stile e a un solo “modo” di scrivere poesia. Ammirò e imitò la poesia italiana del Tre-Quattrocento, le suggestioni della poesia inglese da Shakespeare in poi e, attraverso sperimentazioni di tutti i tipi, giunse infine a trovare un linguaggio tutto nuovo, dove il sogno e la realtà si confondono e il poeta avverte, attraverso la malattia e l’isolamento, il senso del mistero, tipicamente decadente. Un’altra caratteristica della lirica dannunziana è quella del “panismo”, ovvero la capacità di abbandonarsi al ritmo della natura, per goderne le più intense suggestioni, entrando quasi a far parte di essa, sentendosi tutto nel tutto e uno in tutto. La sua poesia si distingue, infine, per l’estrema ricercatezza dello stile e della parole, scelta per il suono che riproduce e per la musica che riesce a creare. La più importante raccolta di poesie di D’Annunzio è costituita dai libri delle “Laudi” (Maia, Elettra, Alcione, cui si aggiunsero più tardi Merope e Asterope), in cui il poeta raccoglie i frutti migliori della sua capacità di fondere i temi e il linguaggio del patrimonio letterario italiano ed europeo. La sua produzione poetica comprende altre opere significative, tra cui “Canto novo”, “Intermezzo di rime”, “Il poema paradisiaco”.
Per quel che riguarda la prosa, D’Annunzio scrisse varie novelle ambientate in Abruzzo (la raccolta “Terra vergine” e “Novelle della Pescara” sono le più riuscite), che esprimono la violenza e l’animalità di un mondo primitivo, non illuminato da pietà né da sentimento religioso, popolato di contadine, pastori e pescatori. I personaggi sembrano trascinati da un destino crudele, in cui prevalgono l’omicidio, il suicidio, la malattia, nel vortice di una sconfitta che niente può riscattare. Il successo arrivò soprattutto nel campo del romanzo, dove volle cimentarsi concependo tre cicli:
- Il ciclo “della Rosa” (Il Piacere, L’innocente, Il trionfo della morte), che doveva avere come tema la “voluttà” (il piacere);
- Il ciclo “del Giglio” (Le vergini delle rocce) che doveva sviluppare il tema del superuomo, dell’esteta che conduce una vita eccezionale, caratterizzata del “bel gesto”, e si distingue dagli uomini comuni;
- Il ciclo “del Melagrano” (Il fuoco), che doveva sviluppare il tema della Bellezza.
Ma i temi di un ciclo si possono trovare nei romanzi di altri cicli: esempio tipico è Il piacere, il cui protagonista, Andrea Sperelli, che vive una vita sensuale e raffinata (ben superiore sia a de Esseintes di Huysmans che a Dorian Gray di Wilde) è allo stesso tempo esempio del Superuomo e dell’esteta, e ha come motto “habere, non haberi” (avere, non essere posseduto). Voluttà, Superomismo e Bellezza sono i temi su cui D’Annunzio costantemente ritorna, aderendo ai motivi ispiratori del decadentismo.
A partire dal 1896 D’Annunzio sviluppò anche una intensa attività teatrale, sia come autore che, possiamo dire, “regista” delle proprie opere (ricordiamo che in quegli anni in Italia ancora non esisteva la “regia”, che cominciava a muovere i suoi primi passi allora in Germania e in Francia). Il teatro dannunziano fu concepito come “arte totale”, in cui l’unione tra testo recitato, musica, canto e danza avrebbe dovuto conquistare il pubblico. I suoi lavori ebbero come protagoniste le attrici di maggior successo di quel periodo (Eleonora Duse, Irma ed Emma Gramatica, Sarah Bernardt) e la sua attività teatrale non fu sempre contrassegnata dal successo. Grande trionfo ottenne con La figlia di Iorio, tragedia di ambiente abruzzese interpretato da Irma Gramatica. Altre opre sono: Sogno di un mattino di primavera, La città morta, Francesca da Rimini, La fiaccola sotto il moggio, La nave, Fedra.
Scrisse anche per il balletto (per lui danzò Isadora Duncan) Le martyre de Saint Sebastien e per il cinema Cabiria.
martedì 12 gennaio 2021
ITALIANO 3^ - Letteratura. Carducci: vita; "Davanti S. Guido"
Giosuè Carducci nacque il 27
luglio
Inizia il suo impegno politico, dapprima nella sinistra mazziniana e, contemporaneamente, la sua ricerca poetica intrisa di classicismo in opposizione al romanticismo. Si avviò, più avanti, verso posizioni conservatrici e monarchiche mentre la poesia diventava un impegno civile. Nel 1878 con l’Ode alla regina d’Italia diventa anche poeta ufficiale di Casa Savoia. Le poesie degli ultimi anni cedono a una visione più pacata e intimistica. Nel 1906 gli fu assegnato il Premio Nobel, un anno prima della sua morte a Bologna.
Parlare oggi di Carducci è sfida non facile, lontano da tutto ciò che impregna la vita attuale. Ma se è vero che la poesia ha un valore eterno allora si può avanzare la tesi che Carducci fu come le sue “fonti” all’origine della stessa.
La natura, il cosmo, l’universo, il paesaggio, le città, fu pittore e scultore di immagini e uomini. Le Odi barbare e le Rime nuove ne sono sensibile testimonianza.
Molte delle Immaginifiche “visioni” dannunziane hanno qui il loro fuoco primitivo.
L’origine è dovuta anche al ritorno alla poesia classica non solo per i temi contenuti, ma soprattutto per il rigoroso uso del verso.
Le Odi Barbare sono così chiamate perché nonostante la ricerca «tali sembrerebbero al giudizio dei greci e dei romani». L’esametro latino è stato così riprodotto: con due versi, un settenario più un novenario.
All’interno di questa raccolta compaiono anche le trasgressioni: nella poesia Nevicata, Carducci introduce un “verso libero”, mescolando versi italiani diversi perché in italiano nessuna misura è sufficientemente lunga per «riprodurre i due versi latini che compongono la strofetta di due versi dell’elegia latina» (Cesare Segre).
Walt Whitman cantò l’America,
Emile Zola cantò
La poesia di Carducci per poter sorreggere il pathos patriottico inseguì più la perfezione tecnica che un profondo e intimo percorso. Per questo, ne è difficile, oggi, la lettura, così soggettiva com’è l’interpretazione dell’uomo contemporaneo dopo gli stravolgimenti formali del verso libero, dell’ermetismo. Oggi si comprende più il frammento che non la costruzione classica di poesie che sono sculture ma anche opere di architettura monumentale. «Carducci è l’ultima tempra d’uomo che abbia avuto la nostra poesia, l’ultimo poeta che nel mondo non abbia veduto solo se stesso, ma anche il prossimo» (Momigliano).
Gabriele D’Annunzio, studente di liceo, gli scrive una lettera nella quale riconosce una scintilla nuova nella poetica del Maestro:
«Illustre signore, quando ne le passate sere d’inverno leggevo avidamente i suoi bei versi, e gli ammiravo dal profondo dell’animo e sentivo il cuore battermi forte di affetti nuovi e liberi, mi venne mille volte il desiderio di scriverle una letterina in cui si racchiudessero tutti questi sentimenti e questi palpiti giovanili… Io voglio seguire le sue orme: voglio anch’io combattere coraggiosamente per questa scuola che chiamano nuova… anch’io mi sento nel cervello una scintilla di genio battagliero, che mi scuote tutte le fibre, e mi mette nell’anima una smania tormentosa di gloria e di pugne…»
Morì a Bologna il 16 febbraio 1907
Davanti
San Guido
I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
Bisbigliaron vèr' me co 'l capo chino —
Perché non scendi ? Perché non ristai ?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí ?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! —
— Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei—
Guardando lor rispondeva — oh di che cuore !
Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è piú quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.
E massime a le piante. — Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
— Ben lo sappiamo: un pover uom tu se'.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;
E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. —
Ed io—Lontano, oltre Apennin, m'aspetta
È
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! —
— Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? —
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co 'l mesto accento
De
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
— Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
— Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.