venerdì 27 novembre 2020

APPROFONDIMENTI LETTERARI 3^ - Teatro: dalla nascita alla fine del teatro in Grecia

 

UNA BREVISSIMA STORIA DEL TEATRO

 

 

 

Perché il teatro è importante dal momento che forma la mente degli uomini

 in maniera tale che qualsiasi cosa essi vedano sul palcoscenico

ne faranno la prova nel mondo, che non è che un palcoscenico più grande.

 

 

 

Così G. B. Shaw ne’ La dama bruna dei sonetti faceva dire al suo Shakespeare.

Già. Ciò che si vede sul palcoscenico di un teatro è specchio della realtà. O ne è anticipazione. O negazione. O realtà assai più che la quotidiana contingenza. O tutto questo  e altro ancora.

E’ sogno? Forse, se per sogno si intende ciò che pensava nel II secolo d.C. Artemidoro di Daldi nella sua Interpretazione dei sogni: il sogno, in greco tòn onéiron, è “l’essere che parla, che si manifesta”[1].

E quanti sogni nella storia del teatro, talora, anzi spesso, premonitori e, sempre, rivelatori del “reale”, della verità dell’essere.

E in questo continuo rivelare nel nascondimento della maschera, della “persona” (secondo l’etimo etrusco), è la vita, l’essenza stessa del teatro e dell’accadimento scenico, in tutta la sua storia.

Storia che, per quel che riguarda la civiltà di cui siamo figli e espressione, quella “occidentale”, è lunga venticinque secoli e che inizia e si rinnova quando l’uomo guarda intorno e dentro a sé, si interroga, cerca di darsi risposte che lo portino ad uscire dalle diverse “società chiuse” (prendendo in prestito l’analisi di Popper[2]), in cui l’uomo avverte il mondo come una grande macchina su cui egli non ha nessun immaginabile potere, per costituire nuove “società aperte”, nelle quali è l’essere umano l’artefice del proprio esistere.

Sì, perché non si può probabilmente parlare di un unico momento, nella storia dell’uomo, in cui questi prende coscienza di sé e della sua responsabilità nel proprio continuo divenire. No, di “società chiusa” si può, e forse si deve, parlare ogniqualvolta questa, nel sopore determinato da abitudini, usi, consuetudini, convenzioni, regole fatalisticamente o supinamente e acriticamente accettate, rischia di adagiarsi e di esimersi dall’individuare la propria responsabilità nella costruzione dell’esistenza; ogni volta che delega a qualcuno o qualcosa, fideisticamente, il proprio destino e, prima ancora, il determinarsi del suo quotidiano cammino.

 

 

“Una storia del teatro che sia seria ed esauriente al tempo stesso è francamente impossibile. Il teatro copre duemilacinquecento anni di storia documentata, si articola nella storia della letteratura drammatica e in quella dello spettacolo, che a sua volta ha per oggetto l’edificio teatrale, la scenografia, la regia, l’attore, e il burattino o la marionetta: riguarda civiltà estremamente diverse quali la nostra cosiddetta occidentale e quella dell’estremo oriente; nel solo ambito della nostra tradizione culturale essa si esprime in almeno venti lingue importanti e diverse, che vanno dal greco antico e dal latino a tutte le lingue nazionali parlate oggi in Europa e nelle Americhe, per non far cenno delle lingue regionali nelle nazioni più ricche di vicende, o delle nazioni e dei teatri emergenti che alla nostra tradizione si rifanno. Nessuno può pretendere di coprire questo impressionante arco di conoscenze necessarie, e nessuno è mai stato in grado di raccogliere a questo scopo un’équipe adeguata.

Pertanto, raccontare una storia del teatro non può significare altro che tracciare un plausibile itinerario che dalle prime manifestazioni dell’evento teatrale nella nostra civiltà ci conduca fino al teatro dei giorni nostri, collegando insieme quei momenti, quegli eventi, quei movimenti, quei nomi che in qualche modo hanno lasciato una traccia e hanno contribuito in misura più evidente a fare del nostro teatro quello che è. Senza badare a tutto ciò che – così facendo – si è trascurato: o per non complicare troppo il racconto, o semplicemente perché non se ne sa abbastanza.”

Così si esprime Luigi Lunari, uno dei massimi esperti di Storia del Teatro contemporanei, nella sua Nota introduttiva a “Breve storia del teatro”5.

Il breve racconto della storia del teatro della nostra tradizione culturale (cioè quello che nasce in Grecia, sembra morire con la decadenza di Roma, rinasce nel Medioevo e vede poi la grande fioritura dei teatri nazionali, in Europa e poi nelle Americhe) che seguirà, pertanto, non potrà essere che estremamente sintetico e, necessariamente, incompleto.

 

Il teatro drammatico occidentale nasce nella sua compiuta struttura, per quel che riguarda la tragedia, in Atene,  tra il VI e il V secolo a. C. Ma quel che noi conosciamo, attraverso l’opera dei poeti tragici, è il frutto di una lunga evoluzione che alla sua origine vede i riti dei culti misterici dedicati a Diòniso, il dio dell’ebbrezza liberatoria: in essi i fedeli coralmente intonavano un canto ritmato accompagnato da danze (di cui rimane traccia nei movimenti del coro della tragedia classica), il ditirambo. Un giorno, si può supporre, un fedele più audace o geniale o semplicemente più ebbro degli altri, fingendo di essere il dio, rispose al coro: era nato l’ypocritès, colui che risponde. Non ancora l’attore, come lo intendiamo oggi, ma un interlocutore. Il monologo diventava dialogo. Ci è tramandato dalla tradizione il nome del poeta che per primo introdusse nel ditirambo la parte “parlata” del solista: Arione di Lesbo, nel 620 a. C. Successivamente colui che risponde divenne anche colui che agisce, l’agonista, l’attore: nasceva il dramma (dal verbo greco drào che significa agire), l’azione scenica. All’inizio uno solo era l’agonista che si confrontava con il coro, interpretando i diversi personaggi. Poi Eschilo (del quale ci sono arrivate sette tragedie), secondo la tradizione tramandata da Aristotele, introdusse un secondo attore, l’antagonista: non più risposta dell’uno al tutto, ma dialogo tra due diverse persone così da dar vita alla contrapposizione di due tesi, al “conflitto drammatico”. Finalmente, insomma, era nata la tragedia come ancora oggi la conosciamo. Non più i lunghi racconti epici degli aedi (epòmai in greco è raccontare), ma conflitto tra due personaggi che non narrano niente né contemplano qualcosa ma agiscono, fanno vivere un evento che è visto (teatro deriva dal verbo greco theàomai, vedere), nel quale eroi umani pongono domande sui perché dell’essere e lottano contro divinità e destini incomprensibili e indifferenti alla sofferenza del peregrinare dell’uomo. Il resto si sviluppa con facilità da queste premesse. Sofocle (del quale anche ci sono giunte sette opere complete più numerosi frammenti di altre), sempre secondo Aristotele, introdusse il terzo attore e Euripide (di cui ci sono giunte diciassette tragedie autentiche e un dramma satiresco) ridusse l’importanza del coro. E tutto ciò in meno di un secolo: dal 500 (anno del debutto di Eschilo) al 406, anno in cui muoiono Sofocle e Euripide. Poi, mentre fino al 388 si sviluppa ancora la commedia di Aristofane, tutto sembra spegnersi, finire con la fine dei tre grandi tragici. Certo gli spettacoli continuano, si continuano a scrivere tragedie, ma non ci rimangono che nomi di autori e titoli di opere, nient’altro. Era finito lo splendido periodo della libertà ateniese,  quella per la quale il teatro aveva una tale importanza sociale che lo Stato pagava il prezzo del biglietto d’ingresso (un obolo) ai cittadini che non potevano permetterselo, che attribuiva alla liturgia dell’allestimento teatrale tanta importanza quanta a quella dell’allestimento di una trireme, quella che aveva permesso di mettere le basi di ogni speculazione intellettuale di cui ancor oggi sentiamo non solo gli echi, ma anche gli stimoli.

Dalla stessa radice dionisiaca, integrata dalla irriverenza popolare, era nata anche la commedia: se nella tragedia la poesia aiuta l’uomo a temere e decifrare i suoi rapporti con l’assoluto, con la trascendenza, con il mistero, in quella uscita dalla società chiusa di cui si è detto nell’introduzione, nella commedia non c’è l’eroe, ma l’uomo di tutti i giorni e il suo scontro è  con il Potere terreno, cosicché il dibattito verte sulla cosa pubblica, la sua amministrazione, e la moralità degli atti individuali o di casta. La commedia è una frusta che non risparmia nessuno, è un tribunale gaio ma spietato dell’esistenza collettiva. Questo almeno nella commedia attica antica di cui massimo rappresentante è Aristofane, del quale ci sono pervenute undici opere, tra cui sono da ricordare: Le Nuvole, Le Rane, Gli Uccelli, La Pace, I Cavalieri, Gli Acarnesi, Pluto, Tesmoforiazouse o La festa delle donne, Ecclesiazouse o Le donne a parlamento, Lisistrata. Ma anche questo, con la fine della libertà ateniese, terminò, e la commedia si ripiegò nell’esposizione e nella critica dei vizi individuali: era la commedia attica nuova, quella di Dìfilo, Filèmone e Menandro (solo di quest’ultimo ci è giunta un’opera, il Dyscolos), quella che ispirò il teatro comico di Roma.



[1] Vedi a proposito G. Polato DI UNA DOMANDA E DI ALCUNE RISPOSTE  postfazione a L.Lunari BREVE STORIA DEL TEATRO, pp. 255-256

[2] K. Popper  LA SOCIETA’ APERTA E I SUOI NEMICI

5 L. Lunari BREVE STORIA DEL TEATRO p V

giovedì 26 novembre 2020

ITALIANO 3^ - Grammatica: correttore verifica scritta di grammatica 26/11/2020

 

VERIFICA SCRITTA SULLA CONOSCENZA DELLE STRUTTURE DELLA LINGUA

 

 

1)      Fai l’analisi logica delle seguenti proposizioni

               Sogg+ attr       pr.ver     c.ogg       c.tempo det

a)      Il mare infido spaventa i marinai dopo il naufragio                                       5

 

   c.mezzo     sogg      pr.ver   attr+c.ogg  c.spec

b)      Con l’oro Filippo occupò molte città della Grecia                                         6

 

       Sogg                 +   attr     pr.nominale

c)      L’accampamento latino era grande e fortificato                                            3

 

Attr.+c.term            pr.verb        sogg             c.mat

d)     A nessuna fanciulla dispiacciono gli ornamenti d’oro                                   5

 

       c.st. in lu      prv verbale         sogg   attr + c.spec

e)      A Siracusa si possono vedere i resti di antichi edifici                                    5

 

     Attr.+c.st.in luogo   sogg             pr.verb       c. compagnia

f)       Nella grande aula l’insegnante camminava con la scolaresca             5

 

Pr.verb           attr. + c. ogg                  attr. + c. mezzo

g)      Circonderemo il nostro accampamento con un alto recinto                           5

 

Pr.verb   attr.+c.ogg   c.mo.per lu c.mo da lu  c.mo.a lu  c. spec

h)      Faremo un lungo viaggio per mare dall’Italia alle coste della Turchia           7

 

Sogg     pr.verb   attr.+c.term           attr.+c.ogg     c.fine

i)        Le erbe fornivano agli antichi popoli molte medicine per le malattie 7

       c.modo

   Sogg             pr.verb  o mezzo    c. spec    attr.+c.ogg   c.arg + attr

l) Giulio Cesare scrisse con perizia di storico i suoi diarii sulla guerra gallica      8

 

 

 

Fai l’analisi del periodo del seguente brano, indicando:

Œ                 Quale è la proposizione principale

Œ                 Quali sono le secondarie

Œ                 Se queste ultime sono coordinate o subordinate

Œ                 Il grado di subordinazione di queste ultime

Œ                 Il tipo di forma (implicita o esplicita)

 

 

L’Italia è una splendida penisola dell’Europa ed ha luoghi incantevoli. Famosi sono i suoi boschi, in cui

 Sub 1° grado esplicita                                           coord d. subord  1° grado esplicita

si sentono cantare molte specie di uccelli e si possono ammirare molte varietà di piante.

                                                                incidentale                 sub 1° grado esplicita

Celebrato è anche il suo mare poiché, quando esso è calmo, è fonte di gioia per gli occhi.

 

 

  sub        2° grado implicita                      sub  rel.3° grado espl                         sub 1° grado implic

Per poter godere degli spettacoli più belli, che la natura offre, è necessario salire sulle cime dei monti più

       sub 2° grado espl                          sub 1° grado espl                                                     

alti, sebbene ciò costi molta fatica. Se qualcuno mette in dubbio le bellezze di questa terra, gli si può

              sub1° impl   sub 2° grado impl       sub 2° grado espl          sub 3° grado espl

chiedere di venire       a visitarla con cura,    dato che sembra      che non l’abbia mai fatto. Molti

                                              sub 1° grado espl

viaggiatori hanno affermato che l’Italia è il giardino d’Europa.

 

2)      Trasforma le proposizioni subordinate implicite dei seguenti periodi in esplicite e viceversa:

a)      Per raggiungere la città vicina si servì del treno

Affinché raggiungesse la città vicina si servì del treno

 

b)      Poiché era bel tempo lasciarono a casa i cappotti

Essendo bel tempo lasciarono a casa i cappotti

 

c)      L’insegnante raccomandò agli alunni di uscire dalla classe con calma

L’insegnante raccomandò agli alunni che uscissero dalla classe con calma

 

d)     Sebbene non fosse molto caldo non indossarono i giacconi

Pur non essendo molto caldo non indossarono i giacconi

 

e)      Andando alla partita di calcio Luca incontrò i suoi amici

Mentre andava alla partita di calcio Luca incontrò i suoi amici

 

3)      Completa i seguenti periodi con i verbi più adatti nella loro coniugazione esatta:

Sebbene fossero in ritardo, non ritennero necessario scusarsi, dato che pensavano o avevano pensato

che gli altri non avevano aspettato troppo a lungo. Perché non avevano ammesso il loro errore, gli amici pensarono che, la prossima volta in cui si fossero incontrati, li avrebbero ricambiati con la stessa moneta. E così fu: solo che, quel giorno, mentre il primo gruppo aspettava gli amici, cominciò a piovere così forte che, quando si incontrarono, i primi erano così bagnati da somigliare a delle spugne.

 

 

Totale punti 130

ITALIANO 3^ - Antologia. Il testo


 

mercoledì 18 novembre 2020

. Il sistema di Istruzione, lo Stato sociale, Autonomia e decentramento

 

Com’è organizzato il Sistema Scolastico Italiano

 

Nel settembre 2000, con l’approvazione unanime della Dichiarazione del Millennio, 191 Capi di Governo hanno sottoscritto un patto globale di impegno congiunto tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Dalla “Dichiarazione del Millennio” delle Nazioni Unite sono nati otto obiettivi (MDG) che costituiscono un patto a livello planetario fra Paesi ricchi e Paesi poveri, fondato sul reciproco impegno a fare tutto ciò che è necessario per costruire un mondo più sicuro, più prospero e più equo per tutti. Si tratta di otto obiettivi cruciali da raggiungere entro il 2015. Tra questi, il secondo è il seguente:

Rendere Universale l’Educazione Primaria, cioè assicurare che ovunque, entro il 2015, i bambini, sia maschi che femmine, possano portare a termine un ciclo completo di istruzione primaria.

Purtroppo, però, l’obiettivo non è stato, per varie ragioni. Eppure sarebbe bastato che i paesi ricchi avessero rinunciato, ognuno, a soli sei giorni di spese militari, riferite all’anno 2009, per conseguire lo scopo (pagg. 7 e 25  di EFA GLOBAL MONITORING REPORT 2011,  UNESCO).

La nostra Costituzione, in questo senso, è “profetica” (se si tiene conto di quando fu redatta): l’articolo 34, infatti, nei primi due commi, recita così:

La scuola è aperta a tutti.

L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

 

È lo Stato a gestire in prima persona tutto il sistema dell’istruzione, fissando le regole generali (art.117); concorrono, però, al sistema d’istruzione anche le Regioni (istruzione e formazione professionale e altro, secondo quanto previsto dall’ art. 138 del decreto legislativo 112 del 1998).

·        Vengono istituite scuole statali per tutti i tipi d’istruzione (dalla materna all’università);

·        Anche enti di varia natura e privati cittadini possono aprire e gestire scuole, ma ciò dovrebbe avvenire senza che lo Stato contribuisca in alcun modo alle spese per il loro mantenimento (art. 33 c. 3);

·        Le scuole private che lo richiedono vengono parificate a quelle statali, ossia hanno pari valore per quanto riguarda il riconoscimento del titolo di studio.

Anche i singoli Istituti scolastici interagiscono con il territorio in cui operano, secondo quanto previsto dal Regolamento dell’AUTONOMIA DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE (D.P.R. 275 dell’8 marzo 1999) e dall’articolo 21 della legge n. 59 del 15 marzo 1997.

 

Stato Sociale

 

L’istruzione scolastica, insieme ad altre attività e servizi, fa parte del cosiddetto stato sociale.

Ne fanno precisamente parte:

 

·        Istruzione scolastica

·        Assistenza sanitaria

·        Tutela della maternità e paternità

·        I sussidi di disoccupazione

·        Le pensioni di vecchiaia

·        Ecc.

Tutto questo, in una concezione di “ stato sociale”, dev’essere a carico della collettività e va quindi riconosciuto dalle leggi, assieme a delle norme a tutela dei lavoratori e a facilitazioni per i poveri e per i disabili (tutto questo è sancito nel Titolo II – Rapporti Etico Sociali, della Costituzione della Repubblica Italiana).

 

 

Vantaggi dello Stato Sociale (attuale)

 

·        Attutire le conseguenze delle crisi

·        Avere effetti positivi sulla crescita

·        Rendere accessibili a tutti beni e servizi fondamentali

·        Limitare l’emergere della povertà

 

Critiche allo Stato Sociale (attuale)

 

·        Alti costi

·        Molta burocrazia

·        Non incentivare lavoro e sviluppo (qualcuno infatti, secondo le idee neoliberiste, afferma che se i disoccupati percepiscono un sussidio a carico dello Stato, si rischia di favorire la trappola della disoccupazione, cioè di scoraggiare la ricerca di un nuovo lavoro, oppure di disincentivare la ricerca di un’occupazione più remunerativa, trappola della povertà).

L’attuale modello di stato sociale (che pure comincia a mostrare alcune inefficienze) prevede che esso vada aggiornato ma non cancellato, secondo il principio di sussidiarietà in cui istituzioni pubbliche e interventi privati si integrino. Lo scopo finale è che i  servizi sociali a carico dello Stato integrino, e non sostituiscano, le risorse e le risposte che emergono dalla società (esempio: famiglie); risorse e risposte da incoraggiare anche con interventi economici, talora indiretti, che saranno pur sempre meno pesanti, per lo Stato, rispetto ad interventi diretti.

SUSSIDIARIETA’= Principio sulla base del quale la responsabilità del benessere dei cittadini è demandata ai gruppi sociali (famiglia, comunità locali, ecc.), mentre lo Stato ha un ruolo integrativo e soprattutto ha il compito di creare le condizioni per accrescere le responsabilità individuale e collettiva: è la cosiddetta Sussidiarietà Orrizzontale. Esiste anche una Sussidiarietà Verticale, in cui le responsabilità pubbliche sono decentrate presso le autorità amministrative più vicine ai cittadini.

Nel nuovo modello di stato sociale, come si vede, i servizi erogati devono essere conformi ai principi di adeguatezza e differenziazione: adeguatezza alle richieste e alle risorse fornite dal territorio, differenziazione della fornitura in relazione alla tipologia del servizio e a quella dei fornitori.

Tra le più importanti costituenti della sussidiarietà nello stato sociale è senza dubbio da iscrivere il volontariato, molto presente in Italia e che si occupa di alcuni ambiti privilegiati:

 

·        Assistenza ai malati e ai disabili

·        Cura dei minori, specie se disagiati e/o emarginati

·        Aiuto e tutela di persone in difficoltà (solitudine, povertà, sfruttamento, ecc..)

·        Tutela e protezione dell’ambiente e della natura.

L’impostazione delle attività di cui si è detto precedentemente dipende dalle o dalla dottrina socio – economico- politica cui fa riferimento il modello di Stato in cui dette attività si realizzano.

 

 

Liberismo e Statalismo

 

La teoria del liberismo (formulata nella seconda metà del ’700 dall’inglese Adam Smith) sostiene l’importanza della iniziativa privata e la dottrina del “lasciar fare”, in base alla quale l’individuo deve avere la massima libertà d’intrapresa, senza che lo Stato intervenga nelle sue decisioni.

La teoria dello statalismo (derivata dalle teorie formulate intorno alla metà dell ‘800 da Karl Marx) sostiene che lo Stato deve diventare padrone di tutti i mezzi di produzione (fabbriche, terreni agricoli, miniere, imprese commerciali, ecc.) togliendoli ai privati. Lo Stato, poi, deciderà che cosa e quanto produrre, i prezzi dei prodotti e i salari dei lavoratori.

In Italia si è arrivati ad un sistema misto che cerca di contemperare le due teorie.

E non solo a livello economico: è lasciata piena libertà agli individui ma è previsto anche l’intervento dello Stato, che si riserva una funzione di indirizzo e di controllo generale. Lo Stato non soffoca l’iniziativa dell’individuo ma, al tempo stesso, interviene, attraverso alcuni strumenti, per eliminare le ingiustizie sociali causate da un liberismo applicato senza limiti e senza controlli.

Due di questi strumenti, tesi ad avvicinare sempre di più lo Stato alle esigenze del cittadino, sono previsti dall’art. 5 della Costituzione della Repubblica Italiana.

 

Autonomia e Decentramento

 

Art. 5 Costituzione Italiana.

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO = Principio in base al quale alcuni compiti e poteri dello Stato vengono decentrati, cioè tolti agli organi centrali e affidati ad organi periferici.

Nella prima parte dell’articolo 5 è contenuto un concetto che può sembrare ovvio, ma è molto importante: la Repubblica Italiana è uno Stato che ha la caratteristica dell’ unità e non si può dividere. (Ciò non significa che sia escluso il federalismo, che è un tipo di sistema politico che organizza lo Stato non sulla base di un forte accentramento unitario- tutto viene deciso dal centro-, ma concedendo autonomia, maggiore o minore a seconda dei casi, alle parti che lo compongono: regioni, città, ecc.; in uno Stato federale il governo centrale non perde autorità: gli rimangono, infatti, importanti competenze in materie molto rilevanti, come la DIFESA, la POLITICA ESTERA e la POLITICA MONETARIA; altre decisioni di tipo legislativo ed amministrativo vengono assegnate alle “autonomie locali”).

Di fatto, però, in Italia esiste un gran numero di realtà locali (regioni, città, paesi, ecc.) che si distinguono per storia, usi, costumi, mentalità, …

Proprio per venire incontro alle particolari esigenze delle popolazioni locali e per snellire il lavoro dell’Amministrazione, lo Stato affida alcuni dei suoi compiti ad organismi statali di “periferia”, che naturalmente devono agire rispettando la Costituzione e le leggi della Repubblica.

La Repubblica Italiana viene quindi amministrata seguendo due principi: il DECENTRAMENTO e l’ AUTONOMIA.

In base al decentramento l’amministrazione pubblica è affidata ad organi dello Stato (esempio: Ufficio Scolastico Territoriale, Intendenza di Finanza, la Prefettura, etc.) che agiscono a livello locale in varie zone del Paese seguendo, però, le direttive del “potere centrale”.

In base all’autonomia esistono degli Enti Pubblici (regioni, province, comuni, ecc.) diversi dallo Stato che hanno il potere di amministrare da sé parti del territorio e le popolazioni che vi risiedono. Questi Enti possono promulgare leggi e regolamenti che hanno la stessa natura di quelli emanati dallo Stato, anche se validi solo per il territorio di loro competenza. Ad esempio, il regolamento stradale comunale è valido solo entro i confini di un determinato comune, ma chi non lo rispetta (anche se risiede in un altro comune) viene punito come se avesse violato le norme del Codice della Strada, che è una legge dello Stato.

Il principio di autonomia vale anche per la scuola. Tutto ciò che concerne i principi di decentramento e autonomia è contenuto nel Titolo V della Costituzione così come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001.

 

martedì 17 novembre 2020

ITALIANO 3^ - Letteratura. Giacomo Leopardi: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

 

CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA

 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E' la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.



ITALIANO 3^ - Letteratura. Giacomo Leopardi: Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere (dalle "Operette morali")

DIALOGO DI UN VENDITORE D'ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE

 

 

 

Venditore.      Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

 

Passeggere.    Almanacchi per l'anno nuovo?

 

Venditore.      Si signore.

 

Passeggere.    Credete che sarà felice quest'anno nuovo?

 

Venditore.      Oh illustrissimo si, certo.

 

Passeggere.    Come quest'anno passato?

 

Venditore.      Più più assai.

 

Passeggere.    Come quello di là?

 

Venditore.      Più più, illustrissimo.

 

Passeggere.    Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

 

Venditore.      Signor no, non mi piacerebbe.

 

Passeggere.    Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

 

Venditore.      Saranno vent'anni, illustrissimo.

 

Passeggere.    A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo?

 

Venditore.      Io? non saprei.

 

Passeggere.    Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

 

Venditore.      No in verità, illustrissimo.

 

Passeggere.    E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

 

Venditore.      Cotesto si sa.

 

Passeggere.    Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

 

Venditore.      Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

 

Passeggere.    Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

 

Venditore.      Cotesto non vorrei.

 

Passeggere.    Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

 

Venditore.      Lo credo cotesto.

 

Passeggere.    Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?

 

Venditore.      Signor no davvero, non tornerei.

 

Passeggere.    Oh che vita vorreste voi dunque?

 

Venditore.      Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.

 

Passeggere.    Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?

 

Venditore.      Appunto.

 

Passeggere.    Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

 

Venditore.      Speriamo.

 

Passeggere.    Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete.

 

Venditore.      Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

 

Passeggere.    Ecco trenta soldi.

 

Venditore.      Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.