venerdì 27 novembre 2020

APPROFONDIMENTI LETTERARI 3^ - Teatro: dalla nascita alla fine del teatro in Grecia

 

UNA BREVISSIMA STORIA DEL TEATRO

 

 

 

Perché il teatro è importante dal momento che forma la mente degli uomini

 in maniera tale che qualsiasi cosa essi vedano sul palcoscenico

ne faranno la prova nel mondo, che non è che un palcoscenico più grande.

 

 

 

Così G. B. Shaw ne’ La dama bruna dei sonetti faceva dire al suo Shakespeare.

Già. Ciò che si vede sul palcoscenico di un teatro è specchio della realtà. O ne è anticipazione. O negazione. O realtà assai più che la quotidiana contingenza. O tutto questo  e altro ancora.

E’ sogno? Forse, se per sogno si intende ciò che pensava nel II secolo d.C. Artemidoro di Daldi nella sua Interpretazione dei sogni: il sogno, in greco tòn onéiron, è “l’essere che parla, che si manifesta”[1].

E quanti sogni nella storia del teatro, talora, anzi spesso, premonitori e, sempre, rivelatori del “reale”, della verità dell’essere.

E in questo continuo rivelare nel nascondimento della maschera, della “persona” (secondo l’etimo etrusco), è la vita, l’essenza stessa del teatro e dell’accadimento scenico, in tutta la sua storia.

Storia che, per quel che riguarda la civiltà di cui siamo figli e espressione, quella “occidentale”, è lunga venticinque secoli e che inizia e si rinnova quando l’uomo guarda intorno e dentro a sé, si interroga, cerca di darsi risposte che lo portino ad uscire dalle diverse “società chiuse” (prendendo in prestito l’analisi di Popper[2]), in cui l’uomo avverte il mondo come una grande macchina su cui egli non ha nessun immaginabile potere, per costituire nuove “società aperte”, nelle quali è l’essere umano l’artefice del proprio esistere.

Sì, perché non si può probabilmente parlare di un unico momento, nella storia dell’uomo, in cui questi prende coscienza di sé e della sua responsabilità nel proprio continuo divenire. No, di “società chiusa” si può, e forse si deve, parlare ogniqualvolta questa, nel sopore determinato da abitudini, usi, consuetudini, convenzioni, regole fatalisticamente o supinamente e acriticamente accettate, rischia di adagiarsi e di esimersi dall’individuare la propria responsabilità nella costruzione dell’esistenza; ogni volta che delega a qualcuno o qualcosa, fideisticamente, il proprio destino e, prima ancora, il determinarsi del suo quotidiano cammino.

 

 

“Una storia del teatro che sia seria ed esauriente al tempo stesso è francamente impossibile. Il teatro copre duemilacinquecento anni di storia documentata, si articola nella storia della letteratura drammatica e in quella dello spettacolo, che a sua volta ha per oggetto l’edificio teatrale, la scenografia, la regia, l’attore, e il burattino o la marionetta: riguarda civiltà estremamente diverse quali la nostra cosiddetta occidentale e quella dell’estremo oriente; nel solo ambito della nostra tradizione culturale essa si esprime in almeno venti lingue importanti e diverse, che vanno dal greco antico e dal latino a tutte le lingue nazionali parlate oggi in Europa e nelle Americhe, per non far cenno delle lingue regionali nelle nazioni più ricche di vicende, o delle nazioni e dei teatri emergenti che alla nostra tradizione si rifanno. Nessuno può pretendere di coprire questo impressionante arco di conoscenze necessarie, e nessuno è mai stato in grado di raccogliere a questo scopo un’équipe adeguata.

Pertanto, raccontare una storia del teatro non può significare altro che tracciare un plausibile itinerario che dalle prime manifestazioni dell’evento teatrale nella nostra civiltà ci conduca fino al teatro dei giorni nostri, collegando insieme quei momenti, quegli eventi, quei movimenti, quei nomi che in qualche modo hanno lasciato una traccia e hanno contribuito in misura più evidente a fare del nostro teatro quello che è. Senza badare a tutto ciò che – così facendo – si è trascurato: o per non complicare troppo il racconto, o semplicemente perché non se ne sa abbastanza.”

Così si esprime Luigi Lunari, uno dei massimi esperti di Storia del Teatro contemporanei, nella sua Nota introduttiva a “Breve storia del teatro”5.

Il breve racconto della storia del teatro della nostra tradizione culturale (cioè quello che nasce in Grecia, sembra morire con la decadenza di Roma, rinasce nel Medioevo e vede poi la grande fioritura dei teatri nazionali, in Europa e poi nelle Americhe) che seguirà, pertanto, non potrà essere che estremamente sintetico e, necessariamente, incompleto.

 

Il teatro drammatico occidentale nasce nella sua compiuta struttura, per quel che riguarda la tragedia, in Atene,  tra il VI e il V secolo a. C. Ma quel che noi conosciamo, attraverso l’opera dei poeti tragici, è il frutto di una lunga evoluzione che alla sua origine vede i riti dei culti misterici dedicati a Diòniso, il dio dell’ebbrezza liberatoria: in essi i fedeli coralmente intonavano un canto ritmato accompagnato da danze (di cui rimane traccia nei movimenti del coro della tragedia classica), il ditirambo. Un giorno, si può supporre, un fedele più audace o geniale o semplicemente più ebbro degli altri, fingendo di essere il dio, rispose al coro: era nato l’ypocritès, colui che risponde. Non ancora l’attore, come lo intendiamo oggi, ma un interlocutore. Il monologo diventava dialogo. Ci è tramandato dalla tradizione il nome del poeta che per primo introdusse nel ditirambo la parte “parlata” del solista: Arione di Lesbo, nel 620 a. C. Successivamente colui che risponde divenne anche colui che agisce, l’agonista, l’attore: nasceva il dramma (dal verbo greco drào che significa agire), l’azione scenica. All’inizio uno solo era l’agonista che si confrontava con il coro, interpretando i diversi personaggi. Poi Eschilo (del quale ci sono arrivate sette tragedie), secondo la tradizione tramandata da Aristotele, introdusse un secondo attore, l’antagonista: non più risposta dell’uno al tutto, ma dialogo tra due diverse persone così da dar vita alla contrapposizione di due tesi, al “conflitto drammatico”. Finalmente, insomma, era nata la tragedia come ancora oggi la conosciamo. Non più i lunghi racconti epici degli aedi (epòmai in greco è raccontare), ma conflitto tra due personaggi che non narrano niente né contemplano qualcosa ma agiscono, fanno vivere un evento che è visto (teatro deriva dal verbo greco theàomai, vedere), nel quale eroi umani pongono domande sui perché dell’essere e lottano contro divinità e destini incomprensibili e indifferenti alla sofferenza del peregrinare dell’uomo. Il resto si sviluppa con facilità da queste premesse. Sofocle (del quale anche ci sono giunte sette opere complete più numerosi frammenti di altre), sempre secondo Aristotele, introdusse il terzo attore e Euripide (di cui ci sono giunte diciassette tragedie autentiche e un dramma satiresco) ridusse l’importanza del coro. E tutto ciò in meno di un secolo: dal 500 (anno del debutto di Eschilo) al 406, anno in cui muoiono Sofocle e Euripide. Poi, mentre fino al 388 si sviluppa ancora la commedia di Aristofane, tutto sembra spegnersi, finire con la fine dei tre grandi tragici. Certo gli spettacoli continuano, si continuano a scrivere tragedie, ma non ci rimangono che nomi di autori e titoli di opere, nient’altro. Era finito lo splendido periodo della libertà ateniese,  quella per la quale il teatro aveva una tale importanza sociale che lo Stato pagava il prezzo del biglietto d’ingresso (un obolo) ai cittadini che non potevano permetterselo, che attribuiva alla liturgia dell’allestimento teatrale tanta importanza quanta a quella dell’allestimento di una trireme, quella che aveva permesso di mettere le basi di ogni speculazione intellettuale di cui ancor oggi sentiamo non solo gli echi, ma anche gli stimoli.

Dalla stessa radice dionisiaca, integrata dalla irriverenza popolare, era nata anche la commedia: se nella tragedia la poesia aiuta l’uomo a temere e decifrare i suoi rapporti con l’assoluto, con la trascendenza, con il mistero, in quella uscita dalla società chiusa di cui si è detto nell’introduzione, nella commedia non c’è l’eroe, ma l’uomo di tutti i giorni e il suo scontro è  con il Potere terreno, cosicché il dibattito verte sulla cosa pubblica, la sua amministrazione, e la moralità degli atti individuali o di casta. La commedia è una frusta che non risparmia nessuno, è un tribunale gaio ma spietato dell’esistenza collettiva. Questo almeno nella commedia attica antica di cui massimo rappresentante è Aristofane, del quale ci sono pervenute undici opere, tra cui sono da ricordare: Le Nuvole, Le Rane, Gli Uccelli, La Pace, I Cavalieri, Gli Acarnesi, Pluto, Tesmoforiazouse o La festa delle donne, Ecclesiazouse o Le donne a parlamento, Lisistrata. Ma anche questo, con la fine della libertà ateniese, terminò, e la commedia si ripiegò nell’esposizione e nella critica dei vizi individuali: era la commedia attica nuova, quella di Dìfilo, Filèmone e Menandro (solo di quest’ultimo ci è giunta un’opera, il Dyscolos), quella che ispirò il teatro comico di Roma.



[1] Vedi a proposito G. Polato DI UNA DOMANDA E DI ALCUNE RISPOSTE  postfazione a L.Lunari BREVE STORIA DEL TEATRO, pp. 255-256

[2] K. Popper  LA SOCIETA’ APERTA E I SUOI NEMICI

5 L. Lunari BREVE STORIA DEL TEATRO p V