venerdì 18 dicembre 2020

ITALIANO 3^ - Certificazione delle competenze/Esame di Stato. "Intervista impossibile": esempio di schema

 

INTERVISTA IMPOSSIBILE

Un esempio (piccolo, sintetico e… banale)

 

Tra i tanti protagonisti del conflitto di cui in questi anni si celebra l’anniversario, c’è un Italiano, nato in Trentino, quando questo faceva ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico, CESARE BATTISTI, che fu impiccato nel Castello del Buonconsiglio di Trento, per tradimento, in quanto, al momento dell’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, si arruolò volontario nel corpo degli Alpini dell’Esercito Italiano e combattè contro l’Austria-Ungheria. Catturato,  fu processato e quindi giustiziato.

Oggi, nella “fossa dei Martiri”, dove fu ucciso, nel giardino del Castello sede del Concilio che diede l’avvio alla Controriforma, abbiamo l’occasione di intervistarlo.

 

Tenente Battisti, cosa ci può raccontare della Sua vita?

(biografia)

 

Ci ha detto che fu anche deputato. Per quale forza politica? A quali idee si ispirava?

 (Socialismo)

 

Lei era spesso a Vienna. Com’era la vita di quella città in quel periodo?

(descrizione di Vienna, una delle capitali artistiche, letterarie, culturali dell’epoca: la pittura di Klimt, la musica di Mahler,…) ma tutto ciò era il preludio della catastrofe che si sarebbe abbattuta sul mondo dal 29 giugno 1918: la Prima Guerra Mondiale.

 

Allo scoppio della guerra, l’Italia non intervenne? Perché? E quali erano gli orientamenti dell’opinione pubblica italiana?

(caratteristiche della Triplice Alleanza; neutralisti e interventisti)

 

Tra i più accesi interventisti c’era il poeta Gabriele D’Annunzio. Conosceva qualcosa di lui, della sua vita, delle sue opere e delle sue idee?

(D’Annunzio)… ma non c’era solo D’Annunzio. C’erano anche Filippo Tommaso Martinetti e tutti gli esponenti del futurismo

 

Che cos’è?

(Futurismo: Boccioni, Balla)

 

Il Futurismo esaltava, dunque, il progresso, la modernità, il movimento. A suo parere, cosa meglio esprime, tra i ritrovati tecnologici che si andavano sviluppando a quel tempo, questa idea di movimento e di progresso?

(esempi: il motore a scoppio, l’elettricità, l’aeroplano…)

 

Certo i mezzi che ha descritto permettono un collegamento veloce tra tante parti del mondo. Ecco, Ella, appassionato di problemi geografici, ha mai viaggiato fuori dall’Europa? E se non l’ha fatto, quale paese Le sarebbe piaciuto visitare?

(Canada)

 

In Canada una delle due lingue ufficiali è il francese, che Ella conosce. Sa, in particolare, dove viene parlato?

(Quebec, in francese)

 

Tornando alla guerra che La vide protagonista, quale, secondo Lei, fu uno degli eventi che ne determinarono la sorte?

L’ingresso degli U.S.A. nel conflitto, con tutta la sua potenza industriale, economica e militare, di cui, se vuole, le posso parlare nella lingua del luogo… (U.S.A., in inglese)

 

Purtroppo la guerra cui partecipò non provocò morti solo a causa delle armi da fuoco…

No, furono impiegati anche i gas (descrizione scientifica)… e si morì anche per le malattie contratte nelle trincee (quali? descrizione scientifica)

 

La Sua esperienza della guerra, così tragicamente conclusasi, quale insegnamento può portare alle giovani generazioni?

(desiderio di pace, che si costruisce con la giustizia secondo quanto espresso nella Costituzione della Repubblica Italiana…)

mercoledì 16 dicembre 2020

ITALIANO 3^ - Letteratura. Naturalismo e Verismo

 

Letteratura: brevissima sintesi su Naturalismo e Verismo

 

Nel solco del Positivismo e dell’evoluzionismo, il romanzo si sviluppò in una corrente detta Naturalismo francese , il cui maggior esponente è Emile Zola (1840 – 1902) e, in Italia, nel Verismo (Capuana, De Roberto, Verga).

Zola, a proposito del Naturalismo, nel saggio “Il romanzo sperimentale” espresse i seguenti principi:

-         Il romanzo non deve fondarsi sulla psicologia ma sullo studio della natura

-         Deve procedere con rigoroso metodo scientifico, osservando scrupolosamente la realtà e ricavando da ogni azione la sua possibile conseguenza

-         Le passioni dell’uomo vanno studiate come gli altri fenomeni della natura e non come sentimenti individuali

-         Lo scrittore deve scrivere il romanzo come se stesse compiendo un esperimento scientifico, con la massima oggettività e impersonalità: non deve quindi dare le sue interpretazioni dei fatti, ma semplicemente osservarli mentre si svolgono.

 

Gli ambienti rappresentati preferibilmente nelle opere dei naturalisti sono quelli più umili del proletariato e sottoproletariato urbano, i bassifondi delle cittadine, i distretti minerari.

 

Il problema più rilevante che nasce dopo l’unificazione d’Italia è la questione meridionale che nasceva dal profondo divario tra il Nord e il Sud, dove permanevano condizioni di vita arcaiche. Pertanto, la differenza tra Naturalismo francese e Verismo italiano consiste in questo: non esistendo in Italia un sottoproletariato urbano, i Veristi italiani si volsero alla rappresentazione della realtà rurale che caratterizzava le regioni del Mezzogiorno, mettendo in luce la povertà, i valori, le tradizioni e le aspirazioni della società contadina.

 

 

Il ciclo di romanzi che Verga concepisce dopo l’accostamento al Verismo si intitola Ciclo dei Vinti. Sarebbero dovuti essere cinque romanzi ma solo due vennero portati a termine: I Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1889).

In essi sono espresse le idee di Verga:

- Non esiste una Provvidenza; il suo è un mondo privo di ogni luce di Provvidenza (e quasi in contrapposizione alla Provvidenza manzoniana si chiama “Provvidenza” la barca dei Malavoglia, travolta nel naufragio), un mondo in cui vanamente l’uomo si sforza di lottare contro un destino sempre avverso;

- Non crede nel progresso, anzi ritiene che esso sia “una fiumana” che trascina con sé gli uomini, tutti “vinti” dalla forza brutale del mondo, “pesce vorace” che ingoia ogni cosa;

- L’uomo è come un’ostrica che il caso ha fatto attaccare a uno scoglio: se vorrà staccarsene, per cercare una posizione migliore, la “fiumana del progresso” se lo porterà via (Morale dell’ostrica).

 

L’ambiente in cui si svolge la vicenda de’ “I Malavoglia” è quello di una famiglia di pescatori di un piccolo paesino siciliano, Aci Trezza.

Il nucleo centrale del romanzo “Mastro don Gesualdo” si può trovare nel possesso della roba, che comprende allo stesso tempo il gruzzolo faticosamente guadagnato e il mondo degli affetti familiari.

 

Verga non utilizza il gergo dialettale ma, attraverso il discorso indiretto libero e l’inserimento di parole dialettali nella lingua letteraria, mantiene l’impianto della lingua nazionale riuscendo contemporaneamente a salvare il sapore della sua terra; un’altra tecnica è quella di presentare le vicende del romanzo dal punto di vista dei personaggi; detti popolari, proverbi, paragoni tratti dalla natura sono altrettanti espedienti con cui l’autore “nasconde” la propria mano per calarsi completamente nel mondo rappresentato e lasciare che esso parli da sé.

 

I romanzi di Verga (oggi riconosciuti come capolavori) non ebbero successo alla loro uscita. Gli italiani di allora non erano in grado di capire: la borghesia del Nord cercava di illudersi con i miti di un mondo aristocratico e desiderabile come quello in cui si muoveva la Malombra di Antonio Fogazzaro (Vicenza 1842 – 1911), che uscì nel 1881, lo stesso anno de’ I Malavoglia, ed ebbe un grandissimo successo.

mercoledì 9 dicembre 2020

ITALIANO 3^ - Letteratura. Alessandro Manzoni, "I promessi sposi": "Addio monti" e "La mamma di Cecilia"

 

CAP. VIII

- Dopo di ciò, - continuò egli, - vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. ’ il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati. Voi, - continuò volgendosi alle due donne, - potrete fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione -. È un torrente a pochi passi da Pescarenico. - Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.

Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que’ mezzi di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere d’un cappuccino tenuto in concetto di santo.

Restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl’indicarono. Quest’ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire!

- Prima che partiate, - disse il padre, - preghiamo tutti insieme il Signore, perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto -. Così dicendo s’inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch’ebbero pregato, alcuni momenti, in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: - noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!... è vostro nemico. Oh disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi.

Alzatosi poi, come in fretta, disse: - via, figliuoli, non c’è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v’accompagni: andate -. E mentre s’avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: - il cuor mi dice che ci rivedremo presto.

Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.

Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente.

Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e n'è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.

Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda.


CAP. XXXIV

 

In mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona parte del suo cammino, quando, distante ancor molti passi da una strada in cui doveva voltare, sentì venir da quella un vario frastono, nel quale si faceva distinguere quel solito orribile tintinnìo.

Arrivato alla cantonata della strada, ch’era una delle più larghe, vide quattro carri fermi nel mezzo; e come, in un mercato di granaglie, si vede un andare e venire di gente, un caricare e un rovesciar di sacchi, tale era il movimento in quel luogo: monatti ch’entravan nelle case, monatti che n’uscivan con un peso su le spalle, e lo mettevano su l’uno o l’altro carro: alcuni con la divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso, pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per segno d’allegria, in tanto pubblico lutto. Ora da una, ora da un’altra finestra, veniva una voce lugubre: - qua, monatti! - E con suono ancor più sinistro, da quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che rispondeva: - ora, ora -. Ovvero eran pigionali che brontolavano, e dicevano di far presto: ai quali i monatti rispondevano con bestemmie.

Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.

Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.

Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.

- O Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!


giovedì 3 dicembre 2020

ITALIANO 3^ - Grammatica. Storia della lingua Italiana: dispensa completa

 

STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

Per poter parlare di storia della lingua italiana bisogna fare un grande salto indietro nel tempo per arrivare a quella che viene considerata la radice comune di tutte le lingue europee, e non solo. Per molto tempo si è sostenuto che la lingua da cui sono nate le altre del “mondo occidentale” sia stato l’indoeuropeo: ma già il nome di queste lingue, nella sua genericità, è indice di incertezza e imprecisione.

In effetti questa imprecisione ha portato gli studiosi a cercare di definire con più accuratezza le origini delle parlate che troviamo nel continente Eurasiatico.

La zona di origine è stata così individuata nel territorio della Mesopotamia e il popolo che diede vita alla lingua-madre negli Accadi, che abitarono dopo averla conquistata,quella regione nel III millennio A.C.

Tracce e residui della loro lingua si trovano ancora oggi nelle parlate di luoghi e popoli che sono tra loro lontanissimi e che furono privi di contatti reciproci documentati per millenni: nella lingua degli Inuit (Eschimesi) così come in quella degli Islandesi, nella lingua Russa come in quella Giapponese, nella lingua Indiana come in quella Inglese e in quella Spagnola.

E’ per questi motivi che si può parlare di una lingua Indoeuropea, solo se si accetta che tale lingua non è quella di un unico popolo ma che i suoi elementi costituiscono patrimonio comune di moltissimi popoli.

Questa lingua Accadica nei secoli, “contaminandosi” con le culture locali, si andò via via trasformando, assumendo in ogni regione caratteristiche che resero ogni parlata autonoma e indipendente da un’altra, pur nata dalla stessa radice.

Si ebbero in questo modo le principali lingue asiatiche ed europee, dal sannito al finnico al greco,  alle lingue slave e germaniche, al magiaro, all’etrusco e, quindi, al latino.  

 

DAL LATINO AL VOLGARE ITALIANO

Dall’unione delle lingue italiche (Osco, Umbro, Sabino, etc.), alcune delle quali molto primitive soprattutto nella scrittura, dell’Etrusco (di origine incerta ma, con tutta probabilità, orientale) e, in misura preponderante, del Greco, nacque la lingua Latina.

In seguito la lingua Latina si sviluppò mantenendo sempre la differenza tra lingua parlata e lingua scritta; si mantenne anche una grande differenza tra il “classico” usato dalle classi alte e/o colte, il latino volgare, usato dal popolo, e il cosiddetto Sermo Familiaris, cioè la lingua parlata nell’intimità della casa, nei colloqui familiari.

Con la fine dell’impero romano sembrò finire anche la lingua latina quale strumento comune a tutti i popoli che Roma aveva conquistato. In effetti la lingua latina non sparì ma si modificò, ricevendo i contributi delle diverse parlate che si usavano all’interno del vasto territorio dell’impero. Entrarono così a far parte del latino parole, forme ed espressioni nuove, sempre più avvicinando la lingua ufficiale a quella da tutti parlata.

Questa modalità di trasformazione diede vita alle lingue volgari, cioè parlate dal popolo, assai differenti dal latino ufficiale. Il latino rimase usato quasi esclusivamente negli atti ufficiali (leggi, decreti…etc.) e nella pratica liturgica della Chiesa. Ma, pur restando la lingua della cultura “alta”, il latino medievale mostra, nei documenti scritti, attraverso la sempre più frequente comparsa di “errori”e innovazioni, l’inserimento di nuovi usi della lingua, anche se chi scrive è ancora convinto di usare il latino.

L’esempio più classico di ciò è l’indovinello veronese che è il seguente: Se pareba boves, alba pratalia araba et albo versorio teneba, et semen nigro seminaba = mandava avanti i buoi, arava bianchi prati, e teneva un bianco versoio, e seminava un nero seme; fu ritrovato in un codice della biblioteca capitolare di Verona e risale ai primi anni del secolo IX o agli ultimi anni dell’VIII. Non si può stabilire con certezza se si tratti di un latino in cui involontariamente affiorano elementi volgari, o se si tratti di una scelta volontaria. Per avere la certezza che chi scrive usa coscientemente e volontariamente il volgare, considerandolo chiaramente diverso e distinto dal latino, bisogna arrivare al 960, al PLACITO CAPUANO. Nel documento (un atto giudiziario) fu inserita, all’interno del testo latino, una frase pronunciata da un testimone che usava una parlata campana: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. Nonostante la presenza di alcuni resti di latino (quasi automatici per chi scrive), il contrasto tra il latino ufficiale del resto del documento e la frase volgare del testimone mostra, oltre ogni dubbio, la coscienza che latino e volgare erano ormai due lingue distinte. Il Placito Capuano è considerato l’atto di nascita ufficiale (perché contenuto in un documento ufficiale e perché è marcata la distinzione tra latino e volgare) del volgare italiano o, più semplicemente, dell’italiano; sarebbe più esatto parlare di un volgare italiano; è chiaro che questo documento non è l’inizio di qualche cosa ma semplicemente testimonia qualcosa che sta avvenendo da tempo, ne prende atto, e lo “formalizza”.

Ci volle ancora del tempo, però, perché il volgare si facesse strada anche nella letteratura, pur essendoci numerose e consapevoli testimonianze dell’uso del volgare anche in altri documenti ufficiali o semi-ufficiali e/o letterari.  

In questa situazione, anche se vi era una molteplicità di variazioni locali del volgare (da non confondersi con quelli che noi chiamiamo dialetti), comincia ad affermarsi sugli altri il volgare toscano.

Cominciano anche a nascere le cosiddette scuole poetiche (non si tratta di istituzioni scolastiche ma di gruppi di poeti accomunati da simili forme di espressioni, di temi, di linguaggio, che diventeranno modello per la poesia successiva e, pertanto, saranno considerati scuola): ricordiamo in particolare la Scuola Siciliana (che si raduna alla corte di Palermo del grande imperatore Federico II di Svevia, poeta anch’esso), la Scuola Toscana, la Scuola Umbra. Di quest’ultima dobbiamo ricordare qui, almeno, quello che è considerato il primo vero capolavoro della poesia italiana: la Laus Creaturarum o Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi.

Bisognerà arrivare però, a Dante Alighieri (Firenze 1265-Ravenna 1321) perché il volgare toscano assuma definitivamente il carattere e l’importanza di una lingua, descritta e resa ufficiale nel suo trattato De vulgari eloquentia (Del parlare volgare), nel quale Dante descrive in latino il volgare, e consacrata come lingua anche poetica nel suo capolavoro, la Commedia.

Chi darà definitiva sistemazione all’uso del volgare in poesia sarà Francesco Petrarca, mentre, per quel che riguarda la prosa, ciò sarà fatto da Giovanni Boccaccio (entrambi tra XIII e XIV secolo).

Dal secolo XIII si assiste anche ad un crescente uso pratico del volgare (elenchi di spese, di tassazione, lettere di mercanti, ecc.); si sviluppa soprattutto il fenomeno del “volgarizzamento”, cioè della traduzione, dal latino e dal francese, di testi di vario genere, storici, morali, narrativi, enciclopedici (ricordiamo, per tutti, il Tresor e il Tesoretto di Brunetto Latini, uno dei maestri più amati di Dante). A scopi pratici risponde anche la pubblicazione dell’Ars Dictandi (arte del parlare) nella nuova lingua da parte di Guido Faba che, intorno alla metà del secolo XIII, offre modelli di discorsi e di lettere al nuovo pubblico bolognese.

Nel Quattrocento i progressi del volgare continuano,ad esempio attraverso la sua adozione negli statuti delle città e nelle cancellerie signorili. Ma a cercare di rallentare questo processo di diffusione ci sono i tentativi degli umanisti (o di una loro cospicua parte) che continuano a preferire, quale strumento di cultura, il latino. Da qui una serie di dispute e trattati che continueranno fino al XVI secolo nel quale, finalmente, attraverso le discussioni sulla questione della lingua, si arriverà alla regolamentazione (in senso grammaticale) del volgare italiano con le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525). Anche la diffusione della stampa influenza nel Cinquecento la lingua perché è fonte di regole più chiare per quel che riguarda la grafia.

 

L’italiano non si è diffuso grazie ad un’unificazione politico-statale (come è avvenuto, per esempio, per il francese), ma attraverso i modelli letterari, e la sua fortuna ha perciò coinvolto una fascia ristretta della popolazione, così da rendere inevitabile una frattura tra i “piani alti” ed i “piani bassi”di coloro che usano la lingua.

Dall’XVI secolo in poi non si discusse più, ormai, della necessità dell’uso del volgare: esso, infatti,  aveva ormai acquistato la dignità di lingua comune, anche se non diffusa in maniera uguale e uniforme, e soprattutto di lingua letteraria: il volgare italiano, infatti, rimase per secoli una lingua utilizzata più nello scrivere che nel parlare quotidiano della gente; questa infatti preferiva usare nella vita di tutti i giorni quelli che sono comunemente chiamati dialetti, che si differenziano da zona a zona anche al loro proprio interno.

Dal secolo XVI in poi il problema non è più, quindi, la “lingua” ma studiare e definire con chiarezza le norme che regolano questa lingua. E il dibattito proseguirà fino ai giorni nostri.E non è ancora finito.

 

XVII SECOLO

Grazie all’azione di letterati come Pietro Bembo con le sue Prose della volgar lingua, e al costituirsi di accademie letterarie e non, un po’ovunque in Italia, si arriva in questo secolo ad avere definitivamente coscienza della differenza che esiste tra lingua nazionale e dialetti o lingue locali. Ciò era già evidente dal secolo precedente, ad esempio nell’opera di Angelo Beolco detto il Ruzante,  il quale compone le sue opere sia in volgare italiano che in “lingua rustica”, cioè in pavano, lingua parlata nel teritorio padovano; non solo, in una sua opera, la Vaccaria, anticiperà inconsapevolmente l’azione dell’Accademia della Crusca, utilizzando e quindi analizzando varie lingue locali; e ancora, sarà anticipatore di un’altra moda letteraria delle accademie, quella della nostalgia (puramente ed esclusivamente intellettuale) del mondo agreste dell’Arcadia (la Pastoral). Si codifica così l’italiano poetico il cui carattere fondamentale è di essere lingua separata da quella di uso quotidiano.

Quanto al rapporto con le altre lingue, nel ‘500 forte è l’influenza spagnola. Anche nomi di animali e piante esotiche provenienti dal Nuovo Mondo arrivano attraverso la mediazione dello spagnolo e del portoghese: ad esempio mais, patata, ananas, etc. Ma d’altra parte, in quest’epoca molti italianismi penetrano nella lingue straniere, soprattutto nel campo della lettere e delle arti; del resto l’italiano è abbastanza conosciuto in Europa.

La Questione della Lingua

Dal punto di vista linguistico, il volgare, che nella seconda metà del ‘400 era riuscito a prendere il sopravvento e a superare il pregiudizio umanistico che lo considerava inferiore al latino, nel ‘500 rafforzò le sue posizioni e acquistò un prestigio crescente.

L’affermazione definitiva, a livello letterario, del volgare portò alla nascita della cosiddetta Questione della lingua, cioè il dibattito sulla scelta del volgare da usare. Questa discussione vide risultare vincente la posizione di Pietro Bembo (Prose della volgar lingua, Asolani): la lingua letteraria d’Italia doveva essere il fiorentino, non però il fiorentino parlato dal popolo, ma quello letterario usato dai tre grandi autori del ‘300: Dante, Petrarca e Boccaccio.

Da allora il fiorentino fu considerato lingua comune a tutta la nazione italiana, divenne, cioè,  l’ITALIANO; tutti gli altri volgari assunsero il ruolo secondario di dialetti (ad eccezione di alcuni volgari locali, come il veneziano, che divennero lingue regionali ufficiali usate anche nelle relazioni diplomatiche con stati stranieri).  

 

IL SEICENTO

La questione della lingua proseguì nel secolo XVII ad opera di studiosi e letterati riuniti in accademie. La più importante di queste fu l’accademia della Crusca, nata con lo scopo di separare, nella lingua, la “farina” (cioè le parole veramente italiane) dalla “crusca” (cioè le impurità) e pubblicò nel 1612 il primo grande Vocabolario della lingua italiana, che raccoglieva parole e modi di dire della “buona” lingua, cioè la lingua letteraria fiorentina del Trecento. Quest’opera non solo costituì un modello linguistico e lessicale di fondamentale importanza, ma ebbe anche il merito di suscitare in tutta la penisola un grande fiorire di studi, iniziative e ricerche che accrebbero la produzione e l’analisi della lingua. Moltissime, ad esempio, furono le trattazioni grammaticali; le parti del discorso vennero ampiamente discusse; si elaborarono regole per l’ortografia, la fonologia, l’interpunzione. Ormai l’italiano era una lingua nazionale, accettata da tutti.

E’ sempre in questo secolo che va formandosi un altro carattere fondamentale della lingua che cominciò ad essere usata anche nei trattati scientifici, fino ad allora scritti in latino.

Protagonista di questa “rivoluzione” è Galileo Galilei: se il Sidereus Nuncius del 1610 è ancora in latino, la sua opera fondamentale, Dilaogo sopra i due massimi sistemi del mondo, del 1632, è in italiano.

Non è la prima volta che il volgare è usato in opere scientifiche, ma in Galileo, che desiderava far conoscere le sue teorie e i risultati delle sue ricerche a tutti e non solo agli “addetti ai lavori”, è significativo di una precisa polemica del mondo della scienza che non vuole più sottastare ai dogmatismi della religione. La lingua di Galileo è anche esemplare per chiarezza e specificità: è evidente, infatti, un lavoro non semplice di adattamento di una lingua, a volte quotidiana, a volte letteraria,  alle precise e non equivocabili reali esigenze delle scienze esatte e sperimentali.

 

DAL XVIII SECOLO A OGGI

In tutto il lungo arco di tempo che abbiamo fin qui percorso l’italiano ha potuto fare grandi progressi sottraendo spazio al latino (che, però, continuerà ad avere un ruolo rilevante in ambito scentifico-culturale-ufficiale, come per esempio lingua dell’università, in cui era ancora usata non solo a livello di pubblicazioni, come i “saggi”e le tesi di laurea, ma anche nelle lezioni).

Lo spazio, però, della comunicazione quotidiana è occupato saldamente dal dialetto. G. Baretti ci ha lasciato una chiara testimonianza di quello che voleva dire nel Settecento “parlare italiano”: “E quando accade che qualcuno voglia appartarsi (distinguersi) dagli altri favellando… egli toscaneggia quel suo dialetto alla grossa…, viene a formare una lingua arbitraria”.

La lingua italiana, dunque, risulta essere “artificiale”, più letteraria che di uso comune.

La mancata evoluzione che ha sottratto la nostra lingua ai cambiamenti prodotti dall’uso parlato, lasciandola ancorata alle sue origini trecentesche, è durata fino quasi al secolo XX.

Al momento dell’UNITA’ D’ITALIA (1861) erano in grado di parlare italiano (secondo una stima di TULLIO DE MAURO) circa 600.000 abitanti del regno su 25.000.000, calcolando in questo numero i 400.000 toscani e i 70.000 romani, favoriti dal loro dialetto naturale.

Cambiamenti significativi avvennero, però, già nel Trentennio seguente e poi, in maniera sempre più marcata, nel Novecento.

Tra le cause/strumenti dell’unificazione linguistica possiamo annoverare:

-l’unificazione burocratica e amministrativa (con il relativo spostamento dei funzionari)

-il servizio militare di leva

-la diffusione della stampa giornalistica

-l’aumento della scolarità

-il movimento migratorio dei lavoratori

-il fenomeno dell’urbanesimo industriale, con la relativa crescita del proletariato cittadino (che entra a contatto con la politica, con i giornali, con i comizi politici).

Nasce così, dalla seconda metà dell’800, l’“italiano popolare”. Con questo termine non si indica una realtà unitaria e univoca, ma piuttosto una serie di fenomeni di adattamento alla nuova situazione linguistica. L’italiano popolare è tipico di coloro che, partendo dall’uso quotidiano del “dialetto”, per circostanze indipendenti ed esterne ad essi, arrivano per la prima volta alla lingua nazionale, usandola con fatica e impaccio.

Nel XX secolo radio, televisione, cinema, scuola dell’obbligo, servizio militare obbligatorio sono stati tutti focolai di diffusione dell’italiano, capaci di raggiungere anche località prima isolate, costringendo i “dialetti” a occupare sempre di più posizioni minoritarie, limitate agli ambiti privati e familiari.

I modelli sociali che, a partire dal secondo dopoguerra, si sono imposti in tutti gli strati sociali, hanno finito per escludere assai spesso il “dialetto” anche dalle sfere privata e familiare, così che si è giunti a una conoscenza di esso sovente solo passiva. La lingua che si è diffusa attraverso questo processo risente comunque inevitabilmente di fenomeni di substrato dialettale.

L’italiano è, dunque, diventato “popolare” negli ultimi 120 anni, iniziando ad avere un’evoluzione più rapida dopo una lunga immobilità. Negli ultimi due secoli, poi, l’italiano ha anche cessato di avere prestigio all’estero: esso viene imparato oggi dagli stranieri quasi esclusivamente per interessi turistici o per avvicinarsi alla grande tradizione culturale e artistica del nostro passato. Fuori dai confini politici dell’Italia è usato nella Repubblica di San Marino, nella Città del Vaticano, nel Canton Ticino in Svizzera, nelle regioni della Venezia Giulia e dell’Istria sottoposte ora alle autorità slovena e croata, in alcuni centri del Nizzardo in Francia e nel Principato di Monaco. All’interno dell’Italia vi sono gruppi alloglotti (di altra lingua), sia romanzi (o neolatini), sia non romanzi: i valdostani, con il patois, i ladini, i valser, i cimbri, i mocheni, i croati, gli sloveni, i tedeschi, i francesi, gli albanesi, i greci,  i catalani (tutte queste minoranze linguistiche godono della tutela prevista dall’articolo 6 della nostra Costituzione).

Tra le varietà regionali dell’italiano quattro sono le più importanti, pur avendo al loro interno delle sottovarietà:

-la varietà settentrionale (centri di diffusione: le grandi città del Nord)

-la verietà toscana (centro di diffusione: Firenze)

-la varietà romana

-la varietà meridionale (Napoli)

Nell’ambito del moderno linguaggio letterario gli scrittori hanno spesso fatto ricorso con fortuna alle possibilità offerte dalla situazione plurilingue dell’Italia, usando elementi dialettali allo scopo di maggiore realismo e/o verisimiglianza (verismo e neoralismo) o per ottenere una particolare vivacità di espressione (Carlo Emilio Gadda e Andrea Camilleri).

ITALIANO 3^ - Letteratura. Alessandro Manzoni: ode "5 maggio 1821"

 

Alessandro Manzoni – CINQUE MAGGIO 1821

 

L'ode il Cinque Maggio fu scritta, di getto, in soli tre o quattro giorni, dal Manzoni commosso dalla conversione cristiana di Napoleone avvenuta prima della sua morte (la notizia della morte di Napoleone si diffuse il 16 luglio 1821 e fu pubblicata nella "Gazzetta di Milano"). Nonostante la censura austriaca, l'ode ebbe una larga diffusione europea grazie al Goethe che la fece pubblicare su una rivista tedesca "Ueber Kunst und Alterthum". La prima edizione avvenne nel 1823 a Torino presso il Marietti. L'ode scritta dal Manzoni, per alcune tematiche (tema del ricordo, evocazione della storia) ha delle analogie con il Coro di Ermengarda e con la Pentecoste e soprattutto ha in comune con essi, quello schema che parte da un inizio drammatico e si conclude con un moto di preghiera.

 

Ei fu. Siccome immobile, 
dato il mortal sospiro, 
stette la spoglia immemore 
orba di tanto spiro, 
così percossa, attonita 
la terra al nunzio sta, 


muta pensando all'ultima 
ora dell'uom fatale; 
né sa quando una simile 
orma di pie' mortale 
la sua cruenta polvere 
a calpestar verrà. 


Lui folgorante in solio 
vide il mio genio e tacque; 
quando, con vece assidua, 
cadde, risorse e giacque, 
di mille voci al sònito 
mista la sua non ha: 


vergin di servo encomio 
e di codardo oltraggio, 
sorge or commosso al sùbito 
sparir di tanto raggio; 
e scioglie all'urna un cantico 
che forse non morrà. 


Dall'Alpi alle Piramidi, 
dal Manzanarre al Reno, 
di quel securo il fulmine 
tenea dietro al baleno; 
scoppiò da Scilla al Tanai, 
dall'uno all'altro mar. 


Fu vera gloria? Ai posteri 
l'ardua sentenza: nui 
chiniam la fronte al Massimo 
Fattor, che volle in lui 
del creator suo spirito 
più vasta orma stampar. 


La procellosa e trepida 
gioia d'un gran disegno, 
l'ansia d'un cor che indocile 
serve, pensando al regno; 
e il giunge, e tiene un premio 
ch'era follia sperar; 


tutto ei provò: la gloria 
maggior dopo il periglio, 
la fuga e la vittoria, 
la reggia e il tristo esiglio; 
due volte nella polvere, 
due volte sull'altar. 


Ei si nomò: due secoli, 
l'un contro l'altro armato, 
sommessi a lui si volsero, 
come aspettando il fato; 
ei fe' silenzio, ed arbitro 
s'assise in mezzo a lor. 


E sparve, e i dì nell'ozio 
chiuse in sì breve sponda, 
segno d'immensa invidia 
e di pietà profonda, 
d'inestinguibil odio 
e d'indomato amor.

 
Come sul capo al naufrago 
l'onda s'avvolve e pesa, 
l'onda su cui del misero, 
alta pur dianzi e tesa, 
scorrea la vista a scernere 
prode remote invan; 


tal su quell'alma il cumulo 
delle memorie scese. 
Oh quante volte ai posteri 
narrar se stesso imprese, 
e sull'eterne pagine 
cadde la stanca man! 


Oh quante volte, al tacito 
morir d'un giorno inerte, 
chinati i rai fulminei, 
le braccia al sen conserte, 
stette, e dei dì che furono 
l'assalse il sovvenir! 


E ripensò le mobili 
tende, e i percossi valli, 
e il lampo de' manipoli, 
e l'onda dei cavalli, 
e il concitato imperio 
e il celere ubbidir. 


Ahi! forse a tanto strazio 
cadde lo spirto anelo, 
e disperò; ma valida 
venne una man dal cielo, 
e in più spirabil aere 
pietosa il trasportò; 


e l'avvïò, pei floridi 
sentier della speranza, 
ai campi eterni, al premio 
che i desideri avanza, 
dov'è silenzio e tenebre 
la gloria che passò. 


Bella Immortal! benefica 
Fede ai trïonfi avvezza! 
Scrivi ancor questo, allegrati; 
ché più superba altezza 
al disonor del Gòlgota 
giammai non si chinò. 


Tu dalle stanche ceneri 
sperdi ogni ria parola: 
il Dio che atterra e suscita, 
che affanna e che consola, 
sulla deserta coltrice 
accanto a lui posò. 

 

Analisi del testo


L'Ode può essere divisa in due parti, la prima che va dal prologo fino alla nona strofa, di tono epico, in cui emerge la figura storica di Napoleone, dall'ascesa alla caduta La seconda dalla decima strofa in poi, di tono più contemplativo e lirico (si entra qui nell'animo dell'imperatore) il cui motivo conducente e la definitiva caduta di Napoleone come uomo e l'inizio del suo riscatto spirituale e religioso.

I Parte


L'ode si apre con un forte inciso "Ei fu" in cui pare sia isolata la grandezza "dell'uom fatale", mentre con attonito stupore la terra accoglie la notizia della morte del potente personaggio che ha tenuto in pugno per tanti anni i destini d'Europa (è da notare il doppio significato della parola terra, vale a dire di metafora del mondo umano da una parte, e, dall'altra, come campo di battaglia insanguinato dai soldati che per lunghi anni si sono combattuti). 

Nella seconda e terza strofa il Manzoni dà le ragioni del motivo per cui tratta l'argomento e mette in risalto il fatto che egli abbia composto l'ode senza nessun'ombra di piaggeria o di reverenza verso l'imperatore. In questa parte sono importanti il termine "genio" di chiara reminiscenza pariniana, ma dai forti connotati manzoniani e dal diverso significato, e "forse", che conclude la quarta strofa, in cui emerge chiara la visione cristiana e provvidenziale del poeta.

Con la quinta strofa si ha l'esaltazione della potenza di Napoleone che si concluderà nel verso 54. Qui la strofa si anima e con rapidi tratti è descritta l'immagine di condottiero di Napoleone (è da notare l'alternarsi in tutta l'ode di toni descrittivi ed epici a toni più riflessivi) che si contrappone a quella del corpo immemore presente nella prima strofa. Rapidamente però il tono rallenta e diventa nuovamente contemplativo con la domanda "Fu vera gloria?", in cui Manzoni rispondendo vuol mettere in risalto, più che le grandezze terrene del condottiero, la statura morale dell'uomo: con la propria conversione, infatti, Napoleone ha dato un'ulteriore prova della grandezza di Dio che servendosi di lui ha stampato "la più vasta orma sulla terra". Le ultime tre strofe, continuano con la descrizione del raggiungimento del disegno di gloria di Napoleone (settima e ottava strofa) e della sua grandezza umana (nona strofa). Particolare rilievo si deve dare ad alcuni termini in antitesi tra loro che rendono bene l'instabilità del potere e della gloria umana che caratterizzano l'ottava strofa: gloria-periglio; fuga-vittoria; reggia-esiglio; polvere-altar. Con "Ei si nomò" (v.49), cioè con l'enfatizzazione dell'uso antonomastico del pronome si conclude così la prima parte dell'ode.

II Parte


Il motivo conduttore di questa seconda parte dell'ode é il verbo "giacque", che ha il significato della caduta definitiva di Napoleone e l'inizio del suo riscatto spirituale.

Scompare il pronome antonomastico e la figura dell'imperatore viene espressa attraverso una terza persona più comune, "E sparve, e dì nell'ozio", "E ripensò..." La strofa centrale di questa parte è la similitudine espressa nei versi 61-68. Questa è la parte fondamentale in cui avviene il ripudio delle vane glorie terrene e il sollevarsi verso l'eterno. Napoleone è come un naufrago che prima a lungo ha nuotato nel mare tempestoso della vita cercando terre remote, cioè cercando un significato della vita che le desse un senso. Ma questo suo sforzo è risultato vano, poiché solo Dio può rendere concreta la sete d'eternità è d'infinito presente nell'uomo e non le effimere glorie terrene. Anche l'ultima speranza di lasciare ai posteri la memoria di sé risulta vana. "Il cumulo di memorie" invece di lasciare la memoria eterna della propria epopea, diventano per Napoleone, un peso insopportabile, "la stanca man" che cade "sull'eterne pagine" assume il significato dell'estrema sconfitta umana. La figura di questa sconfitta è magistralmente descritta dall'immagine presente nel verso 75: "chinati i rai fulminei" (gli occhi, rai, una volta balenanti sono ora chini al suolo). 
La strofa quattordicesima descrive le ultime immagini che scorrono nella mente di Napoleone prima di morire. Sono immagini nostalgiche di un passato di gloria e di battaglie, che non ritorneranno più. Questa strofa e caratterizzato dall'uso del polisindeto, cioè l'uso ripetitivo della e posta in capo al verso come il rintocco richiama costantemente gli asindeti epici (ei fu ... ei provò... ei fe' silenzio) e sembra costruire in tutta l'ode, una linea sintattica che si prolunga sino a “e sparve”, in cui si denota la caducità della vicenda umana di Napoleone, e si conclude con il verbo e l'avviò in cui avviene l'annullamento della volontà umana nella Provvidenza divina. 

Avviandoci verso la fine dell'ode c'imbattiamo nella penultima strofa in cui il poeta riprende la voce dell'oratore. Questa strofa dell'opera, dal tono biblico e profetico, è stata aspramente criticata per le sue reminiscenze di retorica ecclesiastica (ha quasi un tono da chiesa barocca).
"Sulla deserta coltrice/accanto a lui posò", è un'immagine piena di significato con cui si conclude l'ode: il letto deserto su cui giace Napoleone, abbandonato dagli uomini, è visitato da Dio, che ha conosciuto anch'Egli la morte e il dolore e perciò non abbandona mai l'uomo nei suoi attimi finali di vita. E' un'immagine che esprime una visione profondamente cristiana del destino dell'uomo.




martedì 1 dicembre 2020

COMPITI PER LE VACANZE DI NATALE

 

COMPITI PER LE VACANZE DI NATALE

 

Italiano

Testo scritto:

Questa notte ho sognato un gatto che mi parlava e mi raccontava…