giovedì 3 dicembre 2020

ITALIANO 3^ - Grammatica. Storia della lingua Italiana: dispensa completa

 

STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

Per poter parlare di storia della lingua italiana bisogna fare un grande salto indietro nel tempo per arrivare a quella che viene considerata la radice comune di tutte le lingue europee, e non solo. Per molto tempo si è sostenuto che la lingua da cui sono nate le altre del “mondo occidentale” sia stato l’indoeuropeo: ma già il nome di queste lingue, nella sua genericità, è indice di incertezza e imprecisione.

In effetti questa imprecisione ha portato gli studiosi a cercare di definire con più accuratezza le origini delle parlate che troviamo nel continente Eurasiatico.

La zona di origine è stata così individuata nel territorio della Mesopotamia e il popolo che diede vita alla lingua-madre negli Accadi, che abitarono dopo averla conquistata,quella regione nel III millennio A.C.

Tracce e residui della loro lingua si trovano ancora oggi nelle parlate di luoghi e popoli che sono tra loro lontanissimi e che furono privi di contatti reciproci documentati per millenni: nella lingua degli Inuit (Eschimesi) così come in quella degli Islandesi, nella lingua Russa come in quella Giapponese, nella lingua Indiana come in quella Inglese e in quella Spagnola.

E’ per questi motivi che si può parlare di una lingua Indoeuropea, solo se si accetta che tale lingua non è quella di un unico popolo ma che i suoi elementi costituiscono patrimonio comune di moltissimi popoli.

Questa lingua Accadica nei secoli, “contaminandosi” con le culture locali, si andò via via trasformando, assumendo in ogni regione caratteristiche che resero ogni parlata autonoma e indipendente da un’altra, pur nata dalla stessa radice.

Si ebbero in questo modo le principali lingue asiatiche ed europee, dal sannito al finnico al greco,  alle lingue slave e germaniche, al magiaro, all’etrusco e, quindi, al latino.  

 

DAL LATINO AL VOLGARE ITALIANO

Dall’unione delle lingue italiche (Osco, Umbro, Sabino, etc.), alcune delle quali molto primitive soprattutto nella scrittura, dell’Etrusco (di origine incerta ma, con tutta probabilità, orientale) e, in misura preponderante, del Greco, nacque la lingua Latina.

In seguito la lingua Latina si sviluppò mantenendo sempre la differenza tra lingua parlata e lingua scritta; si mantenne anche una grande differenza tra il “classico” usato dalle classi alte e/o colte, il latino volgare, usato dal popolo, e il cosiddetto Sermo Familiaris, cioè la lingua parlata nell’intimità della casa, nei colloqui familiari.

Con la fine dell’impero romano sembrò finire anche la lingua latina quale strumento comune a tutti i popoli che Roma aveva conquistato. In effetti la lingua latina non sparì ma si modificò, ricevendo i contributi delle diverse parlate che si usavano all’interno del vasto territorio dell’impero. Entrarono così a far parte del latino parole, forme ed espressioni nuove, sempre più avvicinando la lingua ufficiale a quella da tutti parlata.

Questa modalità di trasformazione diede vita alle lingue volgari, cioè parlate dal popolo, assai differenti dal latino ufficiale. Il latino rimase usato quasi esclusivamente negli atti ufficiali (leggi, decreti…etc.) e nella pratica liturgica della Chiesa. Ma, pur restando la lingua della cultura “alta”, il latino medievale mostra, nei documenti scritti, attraverso la sempre più frequente comparsa di “errori”e innovazioni, l’inserimento di nuovi usi della lingua, anche se chi scrive è ancora convinto di usare il latino.

L’esempio più classico di ciò è l’indovinello veronese che è il seguente: Se pareba boves, alba pratalia araba et albo versorio teneba, et semen nigro seminaba = mandava avanti i buoi, arava bianchi prati, e teneva un bianco versoio, e seminava un nero seme; fu ritrovato in un codice della biblioteca capitolare di Verona e risale ai primi anni del secolo IX o agli ultimi anni dell’VIII. Non si può stabilire con certezza se si tratti di un latino in cui involontariamente affiorano elementi volgari, o se si tratti di una scelta volontaria. Per avere la certezza che chi scrive usa coscientemente e volontariamente il volgare, considerandolo chiaramente diverso e distinto dal latino, bisogna arrivare al 960, al PLACITO CAPUANO. Nel documento (un atto giudiziario) fu inserita, all’interno del testo latino, una frase pronunciata da un testimone che usava una parlata campana: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. Nonostante la presenza di alcuni resti di latino (quasi automatici per chi scrive), il contrasto tra il latino ufficiale del resto del documento e la frase volgare del testimone mostra, oltre ogni dubbio, la coscienza che latino e volgare erano ormai due lingue distinte. Il Placito Capuano è considerato l’atto di nascita ufficiale (perché contenuto in un documento ufficiale e perché è marcata la distinzione tra latino e volgare) del volgare italiano o, più semplicemente, dell’italiano; sarebbe più esatto parlare di un volgare italiano; è chiaro che questo documento non è l’inizio di qualche cosa ma semplicemente testimonia qualcosa che sta avvenendo da tempo, ne prende atto, e lo “formalizza”.

Ci volle ancora del tempo, però, perché il volgare si facesse strada anche nella letteratura, pur essendoci numerose e consapevoli testimonianze dell’uso del volgare anche in altri documenti ufficiali o semi-ufficiali e/o letterari.  

In questa situazione, anche se vi era una molteplicità di variazioni locali del volgare (da non confondersi con quelli che noi chiamiamo dialetti), comincia ad affermarsi sugli altri il volgare toscano.

Cominciano anche a nascere le cosiddette scuole poetiche (non si tratta di istituzioni scolastiche ma di gruppi di poeti accomunati da simili forme di espressioni, di temi, di linguaggio, che diventeranno modello per la poesia successiva e, pertanto, saranno considerati scuola): ricordiamo in particolare la Scuola Siciliana (che si raduna alla corte di Palermo del grande imperatore Federico II di Svevia, poeta anch’esso), la Scuola Toscana, la Scuola Umbra. Di quest’ultima dobbiamo ricordare qui, almeno, quello che è considerato il primo vero capolavoro della poesia italiana: la Laus Creaturarum o Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi.

Bisognerà arrivare però, a Dante Alighieri (Firenze 1265-Ravenna 1321) perché il volgare toscano assuma definitivamente il carattere e l’importanza di una lingua, descritta e resa ufficiale nel suo trattato De vulgari eloquentia (Del parlare volgare), nel quale Dante descrive in latino il volgare, e consacrata come lingua anche poetica nel suo capolavoro, la Commedia.

Chi darà definitiva sistemazione all’uso del volgare in poesia sarà Francesco Petrarca, mentre, per quel che riguarda la prosa, ciò sarà fatto da Giovanni Boccaccio (entrambi tra XIII e XIV secolo).

Dal secolo XIII si assiste anche ad un crescente uso pratico del volgare (elenchi di spese, di tassazione, lettere di mercanti, ecc.); si sviluppa soprattutto il fenomeno del “volgarizzamento”, cioè della traduzione, dal latino e dal francese, di testi di vario genere, storici, morali, narrativi, enciclopedici (ricordiamo, per tutti, il Tresor e il Tesoretto di Brunetto Latini, uno dei maestri più amati di Dante). A scopi pratici risponde anche la pubblicazione dell’Ars Dictandi (arte del parlare) nella nuova lingua da parte di Guido Faba che, intorno alla metà del secolo XIII, offre modelli di discorsi e di lettere al nuovo pubblico bolognese.

Nel Quattrocento i progressi del volgare continuano,ad esempio attraverso la sua adozione negli statuti delle città e nelle cancellerie signorili. Ma a cercare di rallentare questo processo di diffusione ci sono i tentativi degli umanisti (o di una loro cospicua parte) che continuano a preferire, quale strumento di cultura, il latino. Da qui una serie di dispute e trattati che continueranno fino al XVI secolo nel quale, finalmente, attraverso le discussioni sulla questione della lingua, si arriverà alla regolamentazione (in senso grammaticale) del volgare italiano con le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525). Anche la diffusione della stampa influenza nel Cinquecento la lingua perché è fonte di regole più chiare per quel che riguarda la grafia.

 

L’italiano non si è diffuso grazie ad un’unificazione politico-statale (come è avvenuto, per esempio, per il francese), ma attraverso i modelli letterari, e la sua fortuna ha perciò coinvolto una fascia ristretta della popolazione, così da rendere inevitabile una frattura tra i “piani alti” ed i “piani bassi”di coloro che usano la lingua.

Dall’XVI secolo in poi non si discusse più, ormai, della necessità dell’uso del volgare: esso, infatti,  aveva ormai acquistato la dignità di lingua comune, anche se non diffusa in maniera uguale e uniforme, e soprattutto di lingua letteraria: il volgare italiano, infatti, rimase per secoli una lingua utilizzata più nello scrivere che nel parlare quotidiano della gente; questa infatti preferiva usare nella vita di tutti i giorni quelli che sono comunemente chiamati dialetti, che si differenziano da zona a zona anche al loro proprio interno.

Dal secolo XVI in poi il problema non è più, quindi, la “lingua” ma studiare e definire con chiarezza le norme che regolano questa lingua. E il dibattito proseguirà fino ai giorni nostri.E non è ancora finito.

 

XVII SECOLO

Grazie all’azione di letterati come Pietro Bembo con le sue Prose della volgar lingua, e al costituirsi di accademie letterarie e non, un po’ovunque in Italia, si arriva in questo secolo ad avere definitivamente coscienza della differenza che esiste tra lingua nazionale e dialetti o lingue locali. Ciò era già evidente dal secolo precedente, ad esempio nell’opera di Angelo Beolco detto il Ruzante,  il quale compone le sue opere sia in volgare italiano che in “lingua rustica”, cioè in pavano, lingua parlata nel teritorio padovano; non solo, in una sua opera, la Vaccaria, anticiperà inconsapevolmente l’azione dell’Accademia della Crusca, utilizzando e quindi analizzando varie lingue locali; e ancora, sarà anticipatore di un’altra moda letteraria delle accademie, quella della nostalgia (puramente ed esclusivamente intellettuale) del mondo agreste dell’Arcadia (la Pastoral). Si codifica così l’italiano poetico il cui carattere fondamentale è di essere lingua separata da quella di uso quotidiano.

Quanto al rapporto con le altre lingue, nel ‘500 forte è l’influenza spagnola. Anche nomi di animali e piante esotiche provenienti dal Nuovo Mondo arrivano attraverso la mediazione dello spagnolo e del portoghese: ad esempio mais, patata, ananas, etc. Ma d’altra parte, in quest’epoca molti italianismi penetrano nella lingue straniere, soprattutto nel campo della lettere e delle arti; del resto l’italiano è abbastanza conosciuto in Europa.

La Questione della Lingua

Dal punto di vista linguistico, il volgare, che nella seconda metà del ‘400 era riuscito a prendere il sopravvento e a superare il pregiudizio umanistico che lo considerava inferiore al latino, nel ‘500 rafforzò le sue posizioni e acquistò un prestigio crescente.

L’affermazione definitiva, a livello letterario, del volgare portò alla nascita della cosiddetta Questione della lingua, cioè il dibattito sulla scelta del volgare da usare. Questa discussione vide risultare vincente la posizione di Pietro Bembo (Prose della volgar lingua, Asolani): la lingua letteraria d’Italia doveva essere il fiorentino, non però il fiorentino parlato dal popolo, ma quello letterario usato dai tre grandi autori del ‘300: Dante, Petrarca e Boccaccio.

Da allora il fiorentino fu considerato lingua comune a tutta la nazione italiana, divenne, cioè,  l’ITALIANO; tutti gli altri volgari assunsero il ruolo secondario di dialetti (ad eccezione di alcuni volgari locali, come il veneziano, che divennero lingue regionali ufficiali usate anche nelle relazioni diplomatiche con stati stranieri).  

 

IL SEICENTO

La questione della lingua proseguì nel secolo XVII ad opera di studiosi e letterati riuniti in accademie. La più importante di queste fu l’accademia della Crusca, nata con lo scopo di separare, nella lingua, la “farina” (cioè le parole veramente italiane) dalla “crusca” (cioè le impurità) e pubblicò nel 1612 il primo grande Vocabolario della lingua italiana, che raccoglieva parole e modi di dire della “buona” lingua, cioè la lingua letteraria fiorentina del Trecento. Quest’opera non solo costituì un modello linguistico e lessicale di fondamentale importanza, ma ebbe anche il merito di suscitare in tutta la penisola un grande fiorire di studi, iniziative e ricerche che accrebbero la produzione e l’analisi della lingua. Moltissime, ad esempio, furono le trattazioni grammaticali; le parti del discorso vennero ampiamente discusse; si elaborarono regole per l’ortografia, la fonologia, l’interpunzione. Ormai l’italiano era una lingua nazionale, accettata da tutti.

E’ sempre in questo secolo che va formandosi un altro carattere fondamentale della lingua che cominciò ad essere usata anche nei trattati scientifici, fino ad allora scritti in latino.

Protagonista di questa “rivoluzione” è Galileo Galilei: se il Sidereus Nuncius del 1610 è ancora in latino, la sua opera fondamentale, Dilaogo sopra i due massimi sistemi del mondo, del 1632, è in italiano.

Non è la prima volta che il volgare è usato in opere scientifiche, ma in Galileo, che desiderava far conoscere le sue teorie e i risultati delle sue ricerche a tutti e non solo agli “addetti ai lavori”, è significativo di una precisa polemica del mondo della scienza che non vuole più sottastare ai dogmatismi della religione. La lingua di Galileo è anche esemplare per chiarezza e specificità: è evidente, infatti, un lavoro non semplice di adattamento di una lingua, a volte quotidiana, a volte letteraria,  alle precise e non equivocabili reali esigenze delle scienze esatte e sperimentali.

 

DAL XVIII SECOLO A OGGI

In tutto il lungo arco di tempo che abbiamo fin qui percorso l’italiano ha potuto fare grandi progressi sottraendo spazio al latino (che, però, continuerà ad avere un ruolo rilevante in ambito scentifico-culturale-ufficiale, come per esempio lingua dell’università, in cui era ancora usata non solo a livello di pubblicazioni, come i “saggi”e le tesi di laurea, ma anche nelle lezioni).

Lo spazio, però, della comunicazione quotidiana è occupato saldamente dal dialetto. G. Baretti ci ha lasciato una chiara testimonianza di quello che voleva dire nel Settecento “parlare italiano”: “E quando accade che qualcuno voglia appartarsi (distinguersi) dagli altri favellando… egli toscaneggia quel suo dialetto alla grossa…, viene a formare una lingua arbitraria”.

La lingua italiana, dunque, risulta essere “artificiale”, più letteraria che di uso comune.

La mancata evoluzione che ha sottratto la nostra lingua ai cambiamenti prodotti dall’uso parlato, lasciandola ancorata alle sue origini trecentesche, è durata fino quasi al secolo XX.

Al momento dell’UNITA’ D’ITALIA (1861) erano in grado di parlare italiano (secondo una stima di TULLIO DE MAURO) circa 600.000 abitanti del regno su 25.000.000, calcolando in questo numero i 400.000 toscani e i 70.000 romani, favoriti dal loro dialetto naturale.

Cambiamenti significativi avvennero, però, già nel Trentennio seguente e poi, in maniera sempre più marcata, nel Novecento.

Tra le cause/strumenti dell’unificazione linguistica possiamo annoverare:

-l’unificazione burocratica e amministrativa (con il relativo spostamento dei funzionari)

-il servizio militare di leva

-la diffusione della stampa giornalistica

-l’aumento della scolarità

-il movimento migratorio dei lavoratori

-il fenomeno dell’urbanesimo industriale, con la relativa crescita del proletariato cittadino (che entra a contatto con la politica, con i giornali, con i comizi politici).

Nasce così, dalla seconda metà dell’800, l’“italiano popolare”. Con questo termine non si indica una realtà unitaria e univoca, ma piuttosto una serie di fenomeni di adattamento alla nuova situazione linguistica. L’italiano popolare è tipico di coloro che, partendo dall’uso quotidiano del “dialetto”, per circostanze indipendenti ed esterne ad essi, arrivano per la prima volta alla lingua nazionale, usandola con fatica e impaccio.

Nel XX secolo radio, televisione, cinema, scuola dell’obbligo, servizio militare obbligatorio sono stati tutti focolai di diffusione dell’italiano, capaci di raggiungere anche località prima isolate, costringendo i “dialetti” a occupare sempre di più posizioni minoritarie, limitate agli ambiti privati e familiari.

I modelli sociali che, a partire dal secondo dopoguerra, si sono imposti in tutti gli strati sociali, hanno finito per escludere assai spesso il “dialetto” anche dalle sfere privata e familiare, così che si è giunti a una conoscenza di esso sovente solo passiva. La lingua che si è diffusa attraverso questo processo risente comunque inevitabilmente di fenomeni di substrato dialettale.

L’italiano è, dunque, diventato “popolare” negli ultimi 120 anni, iniziando ad avere un’evoluzione più rapida dopo una lunga immobilità. Negli ultimi due secoli, poi, l’italiano ha anche cessato di avere prestigio all’estero: esso viene imparato oggi dagli stranieri quasi esclusivamente per interessi turistici o per avvicinarsi alla grande tradizione culturale e artistica del nostro passato. Fuori dai confini politici dell’Italia è usato nella Repubblica di San Marino, nella Città del Vaticano, nel Canton Ticino in Svizzera, nelle regioni della Venezia Giulia e dell’Istria sottoposte ora alle autorità slovena e croata, in alcuni centri del Nizzardo in Francia e nel Principato di Monaco. All’interno dell’Italia vi sono gruppi alloglotti (di altra lingua), sia romanzi (o neolatini), sia non romanzi: i valdostani, con il patois, i ladini, i valser, i cimbri, i mocheni, i croati, gli sloveni, i tedeschi, i francesi, gli albanesi, i greci,  i catalani (tutte queste minoranze linguistiche godono della tutela prevista dall’articolo 6 della nostra Costituzione).

Tra le varietà regionali dell’italiano quattro sono le più importanti, pur avendo al loro interno delle sottovarietà:

-la varietà settentrionale (centri di diffusione: le grandi città del Nord)

-la verietà toscana (centro di diffusione: Firenze)

-la varietà romana

-la varietà meridionale (Napoli)

Nell’ambito del moderno linguaggio letterario gli scrittori hanno spesso fatto ricorso con fortuna alle possibilità offerte dalla situazione plurilingue dell’Italia, usando elementi dialettali allo scopo di maggiore realismo e/o verisimiglianza (verismo e neoralismo) o per ottenere una particolare vivacità di espressione (Carlo Emilio Gadda e Andrea Camilleri).